Tracciare la storia dell’assenzio è come
ripercorrere una parte del cammino dell’Uomo, dall’erboristeria alla farmacopea
e fitoterapia, dalla mitologia all’arte e alla letteratura (*).
Un esempio? In una scena del noto dramma
shakespeariano Amleto grida: «Assenzio, assenzio!», forse alludendo
ad una delle proprietà di questa pianta che, se assunta in quantità eccessive,
porta all’absintismo cronico. Questa patologia, causata appunto
dall’uso continuo e smodato di liquori a notevole concentrazione di assenzio,
conduce alle stesse gravi conseguenze dell’alcolismo: affezioni gastriche,
epatiche, renali, allucinazioni, impotenza, epilessia; per questo, forse,
Amleto cita l’assenzio come sinonimo di pazzia…
Ma facciamo un passo indietro e un po’ di storia.
Artemisia absinthium
(questo il nome latino, famiglia delle Composite) è una pianta
semiarbustiva, vivace ed elegante, dalla radice perenne e dalle foglie
vellutate color grigio-argento, dentellate e lanceolate, che può raggiungere il
metro d’altezza e vivere fino a dieci anni. Vegeta ovunque (in Italia, Europa e
bacino del Mediterraneo), dalle prossimità dei giardini, ove un tempo veniva
abitualmente coltivata, fino ai 2000 m. d’altezza; i fiori (gialli, emisferici
e numerosi) sono riuniti in grappoli di piccoli capolini reclinati.
Fin dai tempi più antichi, l’assenzio era
conosciuto ed apprezzato per le sue proprietà disinfettanti ed anestetiche: se
ne trova la prima traccia in un papiro egizio risalente al 1600 a.C.. Già
utilizzata fin dai tempi di Ippocrate (V° sec. a.C.), gli antichi greci
consacrarono questa pianta officinale ad Artemide (da cui, appunto, Artemisia),
dea della fertilità: accostamento del tutto appropriato, se consideriamo che la
moderna fitoterapia consiglia l’impiego dell’assenzio nei casi di amenorrea
giovanile, essendo stato isolato in essa un olio essenziale emmenagogo
(absintolo o thujone ([1])
). Se ne deve evitare l’assunzione, tuttavia,
durante l’allattamento, in quanto il principio amaro in essa contenuto
(absintina) passa nel latte, rendendolo inappetibile: «Amaro
come l’assenzio», recita infatti un vecchio detto del popolino, che l’additava
istintivamente come termine di paragone per indicare qualcosa di veramente
amaro.
Più tardi, Dioscoride (altro medico greco - I°
sec. d.C.), oltre a riconfermare le innumerevoli e benefiche proprietà di
questa utilissima pianta (se usata “cum grano salis”), ne
allargava le possibilità d’impiego anche come repellente contro gli insetti; il
succo fresco infatti, cosparso sulla pelle, tiene lontano mosche, tafani,
zanzare, api e formiche: l’antenato del nostro “Autan”, insomma…(**)
Ma l’assenzio non serve solo ad alleviare i fastidi che
gli insetti procurano all’uomo. Se vivessimo ai tempi di Nicolas Lémery (1737),
botanico francese, sapremmo come fare per disinfestare il nostro cane dalle
pulci: lavarlo con l’acqua tiepida, ottenuta dalla bollitura per un’ora e mezza
d’una manciata d’assenzio…
Nei giardini, poi, l’infuso d’assenzio
(disperso con l’annaffiatoio o polverizzato con la pompa) si rivela un
insetticida efficace contro afidi, bruchi, cocciniglie e parassiti alati;
questo come rimedio naturale per contrastare l’abuso dei “pesticidi” chimici,
velenosi per l’uomo e gli animali.
Anche i Celti e gli Arabi raccomandavano l’uso
dell’assenzio ed i medici dell’antichità lo reputavano un vero e proprio
toccasana, grazie alle sue molteplici proprietà terapeutiche.
Nel 1588, Tabernaemontanus (medico e botanico
tedesco, che raccolse nella sua opera Eicones Plantarum più di 3.000
piante) ne consigliava l’assunzione alle persone “di cattivo carattere”:
preludio dei rimedi omeopatici? E’ talmente amaro, infatti, che nelle Sacre
Scritture simboleggiava le vicissitudini e i dolori della vita, identità che si
sposa perfettamente con l’etimologia greca del termine: apsinthos infatti
significa “spiacevole”. Occorreva avere molta
fiducia nella sua efficacia, per tollerarne il sapore sgradevolissimo; ma la
saggezza popolare ammonisce: “amaro in bocca, dolce al cuore”…
Ma veniamo a tempi più recenti.
L’assenzio, “l’erba
santa” degli antichi, conosciuta anche nella tradizione popolare come “l’erba
da vermi” (per le sue note proprietà antielmintiche, contro gli Ossiuri),
ha dato il suo nome ad una bevanda alcolica egregiamente nociva,
della quale i personaggi di Emile Zola fanno grande uso: il famoso (o meglio
famigerato) Absinthe. “Le péril vert” (“il
pericolo verde”, così era chiamato in argot) accompagnava
la vita dei bohèmiens, che solevano radunarsi, per esempio, in quel Café
Momus descritto da Henry Murger ne “La vie de Bohème”, che
Puccini metterà in musica.
Anche Baudelaire, il
precursore dei Poeti maledetti, lo cita spesso nei suoi “Fleurs du
mal” e addirittura uno dei maestri dell’impressionismo francese, Edouard
Manet, lo ha immortalato in un quadro del 1876, intitolato appunto “Buveur
d'absinthe” (“il bevitore di assenzio”). L’opera suscitò un deciso scandalo
e venne rifiutata dal Salon anche perché, come modello, l'artista si
avvalse di un vero clochard e il trasfigurato realismo dell'immagine
sconcertò la giuria. Si dice che anche Vincent van Gogh ne
facesse largo consumo e che le immagini distorte caratterizzanti le sue opere,
oggi di valore inestimabile, siano state in qualche modo “ispirate”
dallo stato alterato di coscienza in cui il grande pittore olandese cadeva,
forse dopo gli eccessi con tale bevanda. Proprio per questo l’Absinthe,
che spesso veniva chiamato più sbrigativamente “il liquore di van Gogh”,
con un gioco di parole e d’assonanza andava ad identificare una personalità, in
quel momento, absente (assente).
Autentico flagello degli
inizi ‘900, si pensi che il consumo di questo liquore, preparato con l’essenza
tossica e convulsivante contenuta nella pianta e denominata “fata verde”,
passa dai 6.713 ettolitri del 1873 ai 360.000 del 1911! Molto di ciò che la
fine del nostro secolo ha attribuito alla droga, la fine dell'Ottocento
l'attribuì all'assenzio. La differenza è che, per quanto riguarda
l'Ottocento, sappiamo come andò a finire... Ironia della sorte:
una delle tantissime indicazioni del succo d’assenzio lo vuole come rimedio
contro…l’ubriachezza, mescolato a miele ed acqua calda.
Per lungo tempo, nei
secoli scorsi, l’infusione vinosa di assenzio si è rivelata estremamente utile
nel trattamento delle febbri intermittenti e recidivanti (es. malaria), risultando
efficace nei casi in cui l’impiego del chinino ([2])
non riusciva ad evitarne le ricadute. Spesso la popolazione più povera
ricorreva a questo succedaneo, non essendo in grado di permettersi l’acquisto
del chinino a causa del suo elevato costo, determinato dalle difficoltà di
lavorazione. Per questo, agli inizi del ‘900, il nostro ministero dell’Interno
provvide a distribuire il chinino a prezzo ridotto e ne rese obbligatoria la
somministrazione, dal 1900 al 1923, ai lavoratori delle “zone malariche”.
Qualche lettore ricorderà senza dubbio che le vecchie insegne delle tabaccherie
riportavano, oltre alla classica dizione “Sali e Tabacchi”, anche quella
“Chinino di Stato”.
Trattiamo ora, a
completamento della “carta d’identità” dell’assenzio, l’impiego che più d’ogni
altro ha contribuito alla diffusione di questa pianta dalle insospettabili
risorse, tanto da essere coltivata su vasta scala (la richiesta è notevole) ed
iscritta nelle farmacopee italiana, francese, tedesca e svizzera.
Ci riferiamo ovviamente
alla produzione di liquori, spina nel fianco per la legislazione di quasi tutti
gli Sati, tanto da portare alla proibizione della preparazione di bevande
alcoliche a base di olio essenziale (absintolo) da parte di molti Paesi (Italia
e U.S.A. compresi). Ma perché tanta cautela nei confronti dell’assenzio, se poi
se ne decantano le straordinarie virtù terapeutiche? E’ presto detto.
Come abbiamo visto,
nella pianta d’assenzio coesistono due “principi attivi”: un olio essenziale
(absintolo o thujone) ed una sostanza amara (absintina).
Il primo, se
impiegato a dosi terapeutiche (=in modiche quantità), è un ottimo tonico dotato
di eccellenti proprietà digestive, ma a dosi elevate è estremamente tossico e
nocivo per il cervello, instaurando tremori, sguardo smarrito, oblio,
offuscamento del raziocinio, distacco dalla realtà.
La seconda invece (absintina) assolve le funzioni tonico-stomachiche,
stimolando l’appetito e combattendo l’atonia digestiva e la dispepsia
psicosomatica. Ma allora, qual è il segreto per “scindere” (nelle nostre case,
così come nelle distillerie) le due componenti? Facile a dirsi, ma in pratica
occorre fare molta attenzione: nelle preparazioni acquose (tisane, decotti,
infusi) l’absintolo è scarsamente presente, in quanto l’acqua (anche se
bollente) non riesce ad “estrarre” più di tanto l’olio essenziale; fermo
restando che, anche in questo caso, non si devono superare le dosi consigliate.
Al contrario, in liquoreria la “forza” dell’alcol è in grado di fissare una
percentuale di absintolo molto maggiore rispetto all’acqua, per cui le
preparazioni non devono essere assunte in abbondanza o di continuo, ma solo
ogni tanto o in caso di necessità.
Ricordiamo che in
tedesco “Wermut” significa assenzio, in quanto per la preparazione di
questo notissimo liquore (così come per aperitivi ed amari in genere) si
utilizza proprio questa pianta, ma badando bene di aggiungere solo la
sostanza amara e non l’olio essenziale; inoltre, per maggior
sicurezza, viene di solito impiegato l’Assenzio pontico (Artemisia
pontica = del Ponto, l’odierna Anatolia), dal contenuto assai minore
del principio attivo in oggetto. O almeno si spera sia così…([3])
Due spigolature per
chi viaggia: le regole mediche della “Scuola Salernitana” consigliava
l’assenzio come preventivo del mal di mare, mentre per calmare il mal di denti
occorre masticarne le radici.
Provare per credere…
[1]) = così chiamato per essere presente anche in una Cupressacea, la Thuja occidentalis
([2]) = Estratto dalla corteccia di alcune piante del genere Cinchona, della famiglia delle Rubiacee, importate intorno al 1640 in Spagna dall'America e le cui proprietà febbrifughe erano già ampiamente utilizzate dagli Amerindi. Grazie ai Gesuiti il medicamento si diffuse rapidamente anche in Italia.
([3]) = A partire dal 1983 l'assenzio torna allo scoperto e, al confronto con i veleni che circolano, in quasi completa innocenza. Questo grazie alla biologa molecolare francese Marie-Claude Delahaye, che ha realizzato un museo dell'assenzio a Auvers-sur-Oise, il villaggio dove è sepolto Van Gogh.
(*) Si ringrazia la Prof. Rosamaria Massa per il prezioso supporto letterario
(**) Una curiosità: per chi volesse conoscere tutto, ma proprio tutto (per quell’epoca) sull’assenzio, basta consultare un codice miniato di Dioscoride, risalente al secolo XIV, gelosamente custodito nella biblioteca del Seminario Vescovile di Padova.
BIBLIOGRAFIA
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D.Manta/D.Semolli – LE ERBE NOSTRE AMICHE
(vol.III) – Ferni, Ginevra, 1976
I.Frattola – PIANTE MEDICINALI ITALIANE –
Signorelli 1977
G.Lodi – PIANTE OFFICINALI ITALIANE – Edagricole 1978
P.Lieutaghi – IL LIBRO DELLE ERBE – Rizzoli
1981
P.
&
I. Schönfelder – ATLANTE DELLE PIANTE MEDICINALI –
Muzzio 1982
J.Valnet – FITOTERAPIA – Giunti Martello 1984
R.Evans Schultes – MEDICINES FROM THE EARTH – Vallardi 1984
Platearius – LE LIVRE DES SIMPLES MEDECINES – Garzanti 1990
P.Lanzara – PIANTE MEDICINALI – Orsa
Maggiore 1997
P.Rigotti – CENT’ERBE – Libritalia 2003
APPENDICE:
APPENDICE:
L'erba magica che distrugge le
cellule tumorali in 16 ore.
Si chiama Artemisia Annua ed è
ignorata dalla comunità medica. Ma pare che abbia grandi effetti per la cura
del cancro. Il cancro è una delle malattie che determina più morti sul nostro
pianeta. Tantissimi i soldi per la ricerca medica, cercando di trovare una cura
definitiva. Una delle tante cure è quella nota come "erba magica", per
lo più ignorata dalla comunità medica, ma che in realtà distrugge fino al 98%
delle cellule cancerogene in sole 16 ore. Secondo quanto riporta Spirit Science
and Metaphysic questa tecnica veniva usata nella medicina cinese e il solo utilizzo
dell'erba, chiamata Artemisia Annua, riduceva le cellule tumorali del polmone
del 28% e, in combinazione con il ferro, sconfiggeva il cancro. In passato
l'artemisinina è stata utilizzata come un potente rimedio antimalarico ma ora è
dimostrato che questa cura è efficace anche nella lotta contro il cancro.
Questo perché quando si aggiunge del ferro alle cellule tumorali infettate,
attacca selettivamente le cellule "cattive", e lascia quelle
"buone" intatte. Gli scienziati che seguono le ricerche, condotte
presso l'Università della California, hanno dichiarato: "In generale i
nostri risultati mostrano che l'artemisinina ferma il fattore di trascrizione
'E2F1' e interviene nella distruzione delle cellule tumorali del polmone, il
che significa che controlla la crescita e la riproduzione delle cellule del
cancro". Utilizzando una varietà resistente alle radiazioni delle cellule
del cancro al seno (che aveva anche una elevata propensione per l'accumulo di
ferro) l'artemisinina si è dimostrata avere un tasso di uccisione del cancro
del 75% dopo appena 8 ore, e uno del quasi 100% dopo appena 24 ore.