“Solo se sei pronto a considerare possibile l’impossibile,

sei in grado di scoprire qualcosa di nuovo”.

(Johann Wolfgang Goethe)

“L’importante è avere un pensiero indipendente:

non si deve credere, ma capire”

(Hubert Revees)


“L’Uomo è la specie più folle: venera un Dio invisibile e distrugge una Natura visibile. Senza rendersi conto che la Natura che sta distruggendo è quel Dio che sta venerando”

(Hubert Revees)

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domenica 30 agosto 2020

ACQUA e LUCE, fonti di Vita…

 


                                              di GIORGIO PATTERA

Questa affermazione, in confronto ad altre considerazioni postate su questo blog, potrà sembrare un’ovvia “banalità”: ma vorremmo ricordare che “l’Homo technologicus” si dimentica ben presto proprio delle ovvie banalità, per cui “rispolverarle”, a volte, fa sorgere il dubbio (nella persona intelligente): “Ma dove ho vissuto finora?”.

 La vita sulla Terra si fonda principalmente su quattro elementi chimici (idrogeno, ossigeno, carbonio e azoto), che sono anche i più abbondanti negli organismi viventi, incluso il corpo umano.


Ovviamente le strutture degli organismi viventi non sono costituite dai singoli elementi allo stato puro, ma sono la risultante delle varie combinazioni tra questi; combinazioni che hanno condotto, tra l’altro, alla formazione di un composto indispensabile alla vita stessa, vale a dire l’acqua (H2O). Senza l’acqua, la vita (almeno quale noi la conosciamo sul nostro pianeta) non potrebbe esistere.


Per elencare solo alcuni esempi, ricordiamo che il globo terrestre è ricoperto per i 2/3 dalle acque degli oceani e dei mari, fonti inesauribili di risorse che alimentano l’uomo e l’atmosfera, anch’essa costituita da vapor d’acqua (umidità e nubi). I primi esseri viventi, unicellulari, si formarono lentamente nell’acqua, da cui parte di essi si trasferì sulla terraferma, colonizzandola. Anche il corpo umano è costituito per il 70% di acqua.

L’acqua, tra le innumerevoli proprietà, annovera anche quella di essere un liquido dipolare e, pertanto, anfòtero: cioè può comportarsi sia come acido sia come base, secondo le sostanze con cui viene a contatto. Questo è dovuto al fatto che la molecola possiede sia un’estremità dotata di carica positiva (H+ - H+) che negativa (O- -): ecco perché l’acqua “lava”…

Come si vede, dunque, l’acqua è una grande fonte di energia per le attività umane, ma, in quanto elemento “duttile” per eccellenza, è anche in grado di riceverla, di conservarla nel tempo e di ritrasmetterla. A questo proposito va ricordato come sia proprio l’acqua a veicolare, attraverso i tessuti dei pazienti, l’energia curativa irradiata dalle mani dei pranoterapeuti e ceduta al liquido stesso: è in questo senso che si può parlare di “memoria” dell’acqua… E l’acqua, da sempre, stringe con l’uomo un legame indissolubile anche sotto l’aspetto mistico, religioso e spirituale, essendo parte integrante della triade «apparizioni divine - presenza di sorgenti - potere miracoloso dell’acqua».


Altro fattore imprescindibile per la vita, oltre l’acqua, è la luce, anch’essa fonte inesauribile di energia (almeno finché il nostro sole non collasserà): riscalda il Pianeta, determinando l’evaporazione delle acque superficiali e, quindi, ripristinando continuamente l’atmosfera. Consente, con l’irraggiamento luminoso giornaliero, lo svolgersi delle attività umane; regola i cicli biologici veglia/riposo, funge da catalizzatore di innumerevoli reazioni chimiche e biochimiche (es.= la sintesi clorofilliana, in cui l’energia dei fotoni attiva la clorofilla contenuta nei vegetali). Tutto questo grazie alla natura dualistica della luce: in parte ondulatoria (= un insieme di onde, che si propaga nello spazio, la cui lunghezza “ʎ” - lambda - è associata ai vari colori) ed in parte corpuscolare (= un insieme di unità singole indivisibili, o “quanti” di energia, chiamate fotoni; questi ultimi sono privi di massa, dotati di moto rettilineo e la loro frequenza – “f” - li distingue in differenti fasce energetiche).


Dovremmo sentirci veramente “piccoli” al pensiero che di tutto il complicato discorso racchiuso nel termine «luce» l’occhio umano percepisce solo una piccolissima parte centrale, quella corrispondente per l’appunto allo spettro visibile…


Anche la luce ha sempre costituito per l’uomo un supporto spirituale, oltreché energetico.

Fenomeni e manifestazioni luminose, con le tipologie più strane e dalle interpretazioni più misteriose, si sprecano fin dalla notte dei tempi nel corso dell’evoluzione umana. Una ricca documentazione di questi avvenimenti si può trovare nei registri parrocchiali di ogni parte d’Europa, essendo un tempo legati quasi esclusivamente a presunte apparizioni di entità ritenute ultraterrene, sia benevoli (Divinità) che maligne (Satana, il Piccolo Popolo, ecc.) e accompagnati molto spesso da effetti prodigiosi.

Dal secondo dopoguerra, vuoi per la “forma mentis” decisamente tecnologica che si stava imponendo alle masse, vuoi per il conseguente allontanamento da quel misticismo che tutto aveva permeato fino agli albori del XX secolo, l’opinione pubblica comincia a rivedere in chiave più critica buona parte di quei fenomeni luminosi che a tutt’oggi continuano a manifestarsi, trasferendo la concezione di “entità ultraterrena” ad essi legata da un piano esclusivamente religioso ad un altro, quello ufologico, intermedio tra l’Uomo e la Divinità. Quasi a voler cercare qualche “fratello maggiore”, più evoluto e più giusto, proveniente dall’immensità del Cosmo, che sappia dare alle immutate domande «chi siamo, donde veniamo, dove andremo» quelle risposte che la gente sembra non voler più accettare dai dogmi religiosi. In alcuni casi, infatti, non va considerato contraddittorio né dissacrante l’interscambio delle due interpretazioni: quella religiosa (tradizionale) e quella ufologica (innovativa). Il tutto confortato dalla fisiologia del processo visivo, in sintonia coi recettori del corpo umano.


Questo, ovviamente, nell’attesa della Verità…

 


venerdì 21 agosto 2020

LE COMETE nostre compagne di viaggio intorno al Sole

 


LA COMETA NEOWISE - LUGLIO 2020

                                              di GIORGIO PATTERA

La cometa (dal greco κομήτης - kométes = chiomato) è un piccolo corpo celeste, costituito da un nucleo solido a base rocciosa (meteoroide) misto a gas congelati e polveri, che può descrivere intorno al Sole, seguendo le leggi di Keplero, un’orbita ellittica, parabolica o iperbolica. 

Proviene dalla nube di Oort (che insieme alla fascia di Kuiper delimita i confini del nostro sistema solare) e quando si avvicina al Sole (circa 600 milioni di km.) tende a riscaldarsi, sviluppando in tal modo una “chioma” (prodotta dall’evaporazione dei gas) ed una “coda”, lunga anche centinaia di milioni di km., che è sempre respinta dal “vento solare” nella direzione opposta a quella in cui si trova il Sole (fig.1).



Fin dai tempi più antichi, l’Uomo aveva intuito che la coda delle comete era probabilmente costituita da gas, ma, non conoscendone ovviamente la composizione, temeva che questo potesse essere venefico per il genere umano. Perciò, nel corso dei secoli, al passaggio delle comete nelle vicinanze della Terra i nostri progenitori hanno sempre attribuito conseguenze catastrofiche, quali guerre, pestilenze, inondazioni e carestie, dovute per l’appunto ai “vapori mefitici” emanati da quegli insoliti corpi celesti.

Al contrario: invece di portare la morte, la vita sulla Terra può aver avuto inizio proprio grazie alle comete.

L’ipotesi è stata riproposta alcuni anni fa da due astronomi, l’inglese FRED HOYLE e l’indiano CHANDRA WICKRAMASINGHE, i quali hanno ripreso in buona parte l’idea di SVANTE ARRHENIUS (premio Nobel per la Chimica nel 1903 per gli studi sulla dissociazione elettrolitica dell’acqua).




 Il grande chimico–fisico svedese, nel suo trattato << Il divenire dei Mondi >>, ipotizzava che la vita, sulla Terra come su qualunque altro pianeta adatto ad ospitarla, sarebbe apparsa in seguito all’inseminazione operata da germi provenienti dallo spazio: la cosiddetta << panspermia cosmica >> (dal greco πανσπερμία da πᾶς, πᾶσα, πᾶν (pas, pasa, pan) "tutto" e σπέρμα (sperma) "seme" = mescolanza dei semi). Agli inizi del secolo questa teoria non fu presa in seria considerazione; tuttavia recenti scoperte sembrano avvalorare le intuizioni di Arrhenius.

 

Dal 1968 in poi sono state individuate molte molecole organiche nelle nubi di gas e polveri della galassia, oltre che in vari tipi di corpi celesti (meteoriti, qualche satellite dei grandi pianeti esterni, comete stesse). Secondo l’ipotesi dei due astronomi, le comete, durante il loro viaggio, raccoglierebbero nello spazio tutte le molecole organiche che incontrano e le trasporterebbero, protette dalle micidiali radiazioni cosmiche e dalla bassissima temperatura del vuoto interstellare (-273 °C) mediante “gusci” di grafite, denominati “fullereni” (fig.2). 


E poiché le comete contengono acqua (anche se in gran parte ghiacciata), quelle molecole verrebbero a trovarsi immerse nell’elemento indispensabile alla vita, “risvegliandosi” però solo quando la cometa, avvicinandosi al Sole, vede innalzarsi la sua temperatura. E’ a questo punto, attraverso una giusta combinazione dei materiali organici, che la vita potrebbe cominciare con la formazione di microrganismi. Questi successivamente potrebbero venir depositati su di un pianeta, quando la cometa gli passa vicino e lo avvolge per qualche tempo nella sua coda; a patto naturalmente che il pianeta sia, come la Terra, abbastanza vicino al proprio sole e possieda condizioni ambientali favorevoli.

Quando si cerca di fotografare corpi di debole luminosità nel cielo notturno, occorre innanzitutto allontanarsi dai luoghi abitati, in quanto il riverbero, anche se modesto, delle luci relative agli insediamenti umani (il cosiddetto “inquinamento luminoso”) disturba sempre lo sfondo del fotogramma, oltre a rendere difficoltosa la localizzazione di quanto si cerca nella volta celeste. Inoltre bisogna tener conto che i vapori di gas più caldi dell’atmosfera (emissioni di auto, fabbriche, impianti di riscaldamento, ecc.) provocano delle “turbolenze” che vanno ad interferire con l’ottica della fotocamera, distorcendo l’immagine. Per questo è opportuno, ove possibile, approntare la postazione per la foto notturna su di un luogo elevato (collina, monte, ecc.), sempre che le condizioni meteo siano ottimali (cielo terso, meglio se con leggera brezza, assenza di nubi e della Luna). 

Le pellicole più indicate sono quelle più sensibili (più “rapide, in gergo fotografico), in quanto consentono di mantenere aperto l’otturatore della fotocamera per tempi non troppo lunghi, cosa che andrebbe a discapito della qualità dell’immagine a causa della rotazione terrestre, se non si dispone di treppiede dotato di motore sincronizzato. Ideali sarebbero quelle all’infrarosso o all’ultravioletto (fig.3), 

se non fosse per la difficoltà del reperimento sul mercato, della conservazione e del successivo trattamento di sviluppo. Queste ultime, infatti, sono appannaggio quasi esclusivo degli Osservatori astronomici, che dispongono di tutte le apparecchiature sopra descritte, che difficilmente un fotoamatore può permettersi.

 

In conclusione, vogliamo ricordare che proprio uno di questi straordinari corpi celesti, nel 1994, fece parlare di sé, destando enorme interesse nella comunità scientifica: stiamo parlando della cometa Shoemaker-Levy 9, famosa perché è stata la prima cometa ad essere osservata durante la sua caduta su un pianeta. Non era mai accaduto infatti che una cometa fosse scoperta in orbita attorno ad un pianeta e non al Sole. Questa, dopo essersi frammentata a contatto con l’atmosfera di Giove, impattò sul grande pianeta con effetti indubbiamente spettacolari, ma che alcuni, terroristicamente, presagirono avere conseguenze “devastanti” (che non si sono verificate) per l’equilibrio gravitazionale del sistema solare. Segno, questo, che forse l’Uomo non ha ancora del tutto superato il retaggio dei “secoli bui”.

 

BIBLIOGRAFIA:

ARRHENIUS S. – L’EVOLUTION des MONDES – BÉRANGER, Paris – 1910

HOYLE F. – LA NATURE de L’UNIVERS - CLUB DU LIVRE, 1951

WICKRAMASINGHE C. – I DRAGHI dell'UNIVERSO - ARMENIA 2002




La cometa "Neowise" Castello di Torrechiara (PR) Luglio 2020 (foto Gianluca Viappiani)


La cometa "Neowise" Castello di Torrechiara (PR) Luglio 2020 (foto Gianluca Viappiani)



La cometa Neowise Luglio 2020 - colline Parmensi (foto Gianluca Viappiani)



RIFERIMENTI:

https://it.wikipedia.org/wiki/Svante_Arrhenius

https://www.sapere.it/sapere/strumenti/domande-risposte/scienza-tecnologia/differenza-meteroide-meteora-meteorite.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Keplero

https://it.wikipedia.org/wiki/Cometa_Shoemaker-Levy_9

 

 

 

martedì 11 agosto 2020

VITA ED HABITAT DEL “LOMBRICUS TERRESTRIS”

 

…e suoi benèfici effetti sul terreno

                                              Di GIORGIO PATTERA

Già nel 1777, in un periodo in cui i giardinieri e gli agricoltori manifestavano il loro disprezzo per i vermi, uno scienziato, Gilbert WHITE, naturalista britannico ed ecologista “ante litteram”, nella sua “NATURAL HISTORY” scriveva che “…la terra diverrebbe ben presto fredda, compatta, priva di fermentazione e, di conseguenza, sterile senza la continua azione d’aerazione e drenaggio da parte dei lombrichi, attività che consiste nell'introdurre foglie e gettar fuori escrementi…”.


La stima del numero dei lombrichi per ettaro è giunta fino a 6 milioni, pari a 750 kg. in peso; se il terreno viene scavato o arato, la popolazione si riduce drasticamente, per poi tornare a crescere una volta cessato il fattore di disturbo.

I lombrichi hanno buone capacità d’adattamento ad ogni tipo di terreno (li troviamo, infatti, sia nelle praterie sia nei boschi), tuttavia non tollerano un suolo eccessivamente acido. Se viene superato un certo limite, infatti, il contadino se ne può accorgere subito, in quanto i residui della vegetazione si accumulano sulla superficie del terreno formando come un tappeto, che alla fine (10-50 anni o più) si trasforma in torba: questo perché i lombrichi se ne sono andati, causa l'acidità.

DARWIN stimò che ogni anno i lombrichi possono riportare in superficie tra 7,5 e 18 tonnellate di terreno per mezzo ettaro; vale a dire che il suolo in cui lavorano, in dieci anni, può aumentare di livello tra 2,5 e 3,2 cm., dovuti all'accumulo di humus.

Uno dei risultati dell'attività dei lombrichi è dunque quello di formare uno strato superficiale di terreno assai buono ed adatto alle coltivazioni; contemporaneamente le pietre, che intralciano le colture ed il lavoro delle macchine agricole, pian piano tendono ad essere ricoperte dall'humus, fino a sprofondare e scomparire. Sempre Darwin calcolò che, in assenza di intervento dell'uomo, i lombrichi riescono ad interrare le pietre al ritmo di 17 cm. ogni 100 anni: questo spiega in parte perché tanti resti archeologici sono ancora sepolti.

Il lombrico, oggi rivalutato e benedetto dai giardinieri, comprende molte specie nostrane, che non sono tutte facilmente distinguibili di primo acchito.

Eisenia foetida (verme-esca) emana un forte odore, come dice il nome latino; è stato sempre ricercato dai pescatori, essendo un'ottima esca per l'amo (come dice il nome volgare).

Il più comune è senz'altro il Lumbricus terrestris, detto anche "arenicola", molto frequente nei giardini; anche questo è impiegato nella pesca con l'amo. Può raggiungere i 25 cm. di lunghezza, nulla in confronto al suo parente australiano che può essere lungo anche 330 cm.!

La sfumatura rossastra che si nota nei lombrichi è dovuta al pigmento del sangue che trasporta l'ossigeno: l'emoglobina (simile a quella presente nell'uomo). Il loro lungo corpo è diviso in segmenti simili ad anelli (circa 150), da cui la denominazione scientifica di ANELLIDI = vermi rotondi segmentati. Ogni anello è molto simile al precedente ed al successivo ed alcuni organi interni (ad es. quello escretore: il nefride, analogo al rene dell'uomo) si ripetono nella maggior parte dei segmenti. L'estremità anteriore, più affusolata rispetto al resto del corpo, è priva di occhi ed orecchie e presenta una bocca senza denti ma provvista di labbro prensile, con cui il lombrico afferra foglie, aghi di pino ed anche pezzettini di carta, che adopera per rivestire le pareti superiori delle gallerie che scava. Attorno al corpo, simile alla fascia d’un sigaro, presentano un ispessimento epidermico simile ad una cicatrice: in realtà è una ghiandola speciale, detta clitellum o “sella”, che serve alla produzione del bozzolo. Quest'ultimo, delle dimensioni di un pisello e di color bruno-scuro, contiene molte uova (i lombrichi sono ermafroditi), ma di solito sopravvive un solo embrione, che si sviluppa tra uno e cinque mesi ed è pronto a riprodursi tra i sei ed i diciotto mesi. Non si sa con certezza quanto tempo vivano i lombrichi: in cattività il L.terrestris è vissuto per 6 anni, mentre altre specie anche 10.

Come “scava” il lombrico?

Esso si muove nel terreno esercitando un'azione meccanica, portando allo sbriciolamento delle particelle e favorendo così gli scambi gassosi (aerazione del sottosuolo). Striscia mediante onde peristaltiche (simili a quelle dell'intestino dei mammiferi) dirette sempre in senso antero-posteriore, grazie alla sua robusta mu-scolatura circolare e longitudinale ed aiutandosi anche con corte setole dirette all'indietro (4 paia per segmento) ed allungabili a piacere.

Mentre il lombrico scava, compie anche un'azione biochimica, poiché ingerisce il terreno, lo arricchisce di sostanze necessarie allo sviluppo delle piante durante il transito nel suo tubo digerente e infine lo espelle. Alcune specie emettono la terra così elaborata in superficie, formando i caratteristici "mucchietti" di humus che si rinvengono nei prati, specie dopo abbondanti piogge.

I lombrichi possono vivere sott'acqua anche per mesi, avendo bisogno di pochissimo ossigeno; quelli trovati morti nelle pozzanghere sono, probabilmente, morti per altre cause. Per un lombrico, infatti, è ben più pericoloso disseccarsi troppo che bagnarsi eccessivamente; in caso di siccità e durante l'inverno, esso si scava delle tane profonde fino a 2,5 m., le tappezza con la mucillagine prodotta dal clitellum e quivi si raggomitola in stato di inattività, in attesa di tempi migliori.

Il lombrico, pur essendo cieco e sordo, è un animale molto sensibile. Se sente una talpa che scava nelle vicinanze, si spaventa e scappa (si fa per dire ...) subito in superficie. Se viene catturato da un predatore (es. il merlo, ghiottissimo di questi vermi), tende a perdere volontariamente (auto-tomìa) una parte del proprio lungo corpo, per istinto di conservazione; un po’ come fa la lucertola…

La porzione rigettata, per azione riflessa, spesso rigenera quella perduta.


domenica 7 giugno 2020

IL “VULCANO” DI CANETO




di GIORGIO PATTERA

<<...Da Berceto, a sedici stadij distante verso Aquilone, è un luogo, dove sovente si veggono uscire lampi di fuoco, & fiamme, che ne per acqua, ne per venti all’hora s’estinguono, ma vanno crescendo maggiormente sempre, ne più oltre s’estendono d’un piccolo circuito, & la terra vi è simile al cenere, & è così combustibile, che avvicinandosi in fuoco, immanente s’accende, ne ardendo, ne estenta poi lascia odore alcuno. Quel luogo chiamano gli habitatori del paese Boinferno; come che, secondo loro, quivi bolla l’Inferno...>>


 Così recita il Bonaventura Angeli nell’ <<Historia della Città di Parma>> del 1591.

Ma ai giorni nostri, per rivivere una cronaca siffatta, non è indispensabile consultare gli antichi annali custoditi nella Biblioteca Palatina: basta entrare di soppiatto, per non turbare quell’atmosfera magica che ovatta la Val Cedra, in una fumosa osteria di Palanzano e, confusi tra gli avventori più fedeli, che contano gli anni con le rughe del viso, ascoltare i ricordi di tempi che furono. Il tutto intercalato fra il biascicare d’un eterno “mezzo toscano” rigorosamente spento ed il lento sorseggiare d’un bicchiere di rosso, ugualmente aspro.


Il “reame” di cui si parla in quei <<C’era una volta...>> è quello di Caneto, sul Monte Caio. La zona è famosa per il fatto che qui la neve non si ferma mai, le viole sbocciano poco dopo Natale e vi si coltivava la vite fino a quando l’emigrazione ed il conseguente, progressivo spopolamento (male cronico della nostra montagna) non ha ridotto il luogo quasi disabitato. In questo recondito lembo di natura incontaminata, dal clima mite e sempre esposto al sole, vivono indisturbati caprioli, volpi, cinghiali, varie specie di rettili e falchi, immersi nel silenzio delle faggete secolari, dei boschi di leccio, delle siepi di Prunus spinosa e degli arbusti di odoroso ginepro. E come tutti i luoghi incantati, anche Caneto nasconde gelosamente un misterioso segreto, in quella zona sopra l’abitato meglio nota come “I Corni”. Quest’ultimo termine, assai poco romantico in verità, deve la propria origine al fatto che il territorio, costituito da rocce calcaree, presenta alcune formazioni carsiche che, in scala ridotta, ricordano alla lontana quelli del Carso triestino. Si tratta delle doline, cioè di rocce variamente modellate dagli agenti atmosferici e incavate dall’azione delle acque meteoriche. E, come nel Carso, quello vero, non manca il corso d’acqua che ne scaturisce: il torrente Bardea, affluente dell’Enza. Il “mistero” in questione è di quelli già segnalati dal Bonaventura Angeli e che la Geologia, senza scomodare Henry Potter, l’odierno Mago Merlino, definisce “affioramenti di idrocarburi”. Questi, essendo più leggeri delle rocce tra le quali sono racchiusi, tendono per legge fisica a risalire verso l’alto. La migrazione in senso verticale risulta facilitata allorché le rocce soprastanti siano fratturate o disposte a “faglie” o comunque permeabili: è proprio questo il caso più frequente nel territorio parmense, in cui si distinguono terreni montagnosi assai tormentati da movimenti tettonici. E proprio da una di queste fenditure, di queste profonde “ferite” che le ingiurie delle ere geologiche hanno inflitto alla Terra, situata alla base di uno dei “corni” di Caneto, scaturiva il metano, quel gas infiammabile (tristemente noto ai minatori) che, una volta incendiato da un fulmine o da una scintilla di falò portata dal vento o dal buontempone di turno, che amava farsi passare per “mago”, veniva interpretato nel contesto culturale dei secoli passati come “il respiro del diavolo” o “la porta sull’aldilà” o “il bollore dell’inferno”, per dirla come ai tempi dello storico ferrarese. Tutte interpretazioni che sono confluite, in tempi più recenti, in un’unica, meno allegorica ma pur sempre iperbolica definizione: “il vulcano del Monte Caio”.



Eppure queste manifestazioni superficiali di idrocarburi sono relativamente frequenti nel territorio parmense e sembrano far parte di due distinti corrugamenti “a cupola”, che si snodano rispettivamente sulla dorsale appenninica e su quella collinare. Partendo dalla Val Baganza (località Case Armaz, tra Berceto e Castellonchio, cui fa riferimento il Cronista alla fine del ‘500), si prosegue per la Val Parma (località Revidulano, tra Ghiare di Corniglio e Petrignacola, attiva sicuramente fino agli anni ‘70), la Val Termina (Torre di Traversetolo, autentica “palestra” per gli studenti di Scienze della Terra, già nota dal 1614 al medico Girolamo Zunti, descritta dallo Strobel nel 1881 e ripresa nel 1915 dal geologo Mario Anelli; Rivalta di Lesignano, citata dal Molossi nel “Vocabolario topografico dei Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla”), fino ad uscire dal territorio provinciale oltre Val d’Enza. Tutti questi affioramenti, prove inconfutabili di un’attività magmatica profonda ancora insistente, vanno in gergo popolare sotto l’appellativo di Barboj (termine onomatopeico: Barbogli = gorgogli, borbottii che accompagnano la fuoriuscita di gas metaniferi, sprigionati dal sottosuolo), ma secondo le ancestrali leggende tramandate a voce da generazioni si riconduce il fenomeno a “storie di maghi che accendono i fornelli sotto la terra e di tanto in tanto rapiscono qualche malcapitato ed imprudente visitatore…”.         

Un’ultima considerazione: Caneto, in linea d’aria (o meglio, in questo caso, in linea sotterranea), non è lontanissimo dalle grotte di Sassalbo, anch’esse fenomeno pseudo-carsico insito nelle pendici del Monte Alto, appena al di là dello spartiacque del Valico del Cerreto, che tante sorprese e tanto clamore hanno suscitato nell’estate del 2001 (cfr. in U.A.P.). E se volessimo lasciarci andare alla fantasia, la stessa del grande Jules Verne nel “Viaggio al centro della Terra”, anche oggi il mistero potrebbe continuare...  
 

Approfondimenti:



Appendice:


I “vulcanelli di fango” (termine tecnico ufficiale) sono vulcani in miniatura, ma naturalmente con molte differenze rispetto ai vulcani veri e propri. A provocarli è la risalita di gas (in molti casi si tratta di metano) ed acqua dal sottosuolo: nel momento in cui l'acqua attraversa zone ricche di argilla, questa diventa 'plastica'. Si forma così un materiale fluido, che gradualmente viene portato verso la superficie dalla costante risalita dei gas e continua ad accumularsi, fino al punto in cui la pressione dei gas non diventa tale da provocare una sorta di 'eruzione'. Un “ribaltamento” che può produrre emissioni di fango capaci di raggiungere, in alcuni casi, un'altezza compresa fra 10 e 25 metri. Famosi sono quelli del Parco americano di Yellowstone, nel Wyoming.