“Solo se sei pronto a considerare possibile l’impossibile,
sei in grado di scoprire qualcosa di nuovo”.
(Johann Wolfgang Goethe)
“L’importante è avere un pensiero indipendente:
non si deve credere, ma capire”
(Hubert Revees)
“L’Uomo è la specie più folle: venera un Dio invisibile e distrugge una Natura visibile. Senza rendersi conto che la Natura che sta distruggendo è quel Dio che sta venerando”
(Hubert Revees)
martedì 3 giugno 2025
domenica 30 agosto 2020
ACQUA e LUCE, fonti di Vita…
di GIORGIO PATTERA
Questa affermazione, in confronto
ad altre considerazioni postate su questo blog, potrà sembrare un’ovvia
“banalità”: ma vorremmo ricordare che “l’Homo technologicus” si dimentica ben
presto proprio delle ovvie banalità, per cui “rispolverarle”, a volte, fa
sorgere il dubbio (nella persona intelligente): “Ma dove ho vissuto finora?”.
La vita sulla Terra si fonda principalmente su
quattro elementi chimici (idrogeno, ossigeno, carbonio e azoto), che sono anche
i più abbondanti negli organismi viventi, incluso il corpo umano.
Ovviamente le strutture degli organismi viventi non sono costituite dai singoli elementi allo stato puro, ma sono la risultante delle varie combinazioni tra questi; combinazioni che hanno condotto, tra l’altro, alla formazione di un composto indispensabile alla vita stessa, vale a dire l’acqua (H2O). Senza l’acqua, la vita (almeno quale noi la conosciamo sul nostro pianeta) non potrebbe esistere.
Per elencare solo alcuni esempi, ricordiamo che il globo terrestre è ricoperto per i 2/3 dalle acque degli oceani e dei mari, fonti inesauribili di risorse che alimentano l’uomo e l’atmosfera, anch’essa costituita da vapor d’acqua (umidità e nubi). I primi esseri viventi, unicellulari, si formarono lentamente nell’acqua, da cui parte di essi si trasferì sulla terraferma, colonizzandola. Anche il corpo umano è costituito per il 70% di acqua.
L’acqua, tra le innumerevoli proprietà, annovera anche quella di essere un liquido dipolare e, pertanto, anfòtero: cioè può comportarsi sia come acido sia come base, secondo le sostanze con cui viene a contatto. Questo è dovuto al fatto che la molecola possiede sia un’estremità dotata di carica positiva (H+ - H+) che negativa (O- -): ecco perché l’acqua “lava”…
Come si vede, dunque, l’acqua è una grande fonte di energia per le attività umane, ma, in quanto elemento “duttile” per eccellenza, è anche in grado di riceverla, di conservarla nel tempo e di ritrasmetterla. A questo proposito va ricordato come sia proprio l’acqua a veicolare, attraverso i tessuti dei pazienti, l’energia curativa irradiata dalle mani dei pranoterapeuti e ceduta al liquido stesso: è in questo senso che si può parlare di “memoria” dell’acqua… E l’acqua, da sempre, stringe con l’uomo un legame indissolubile anche sotto l’aspetto mistico, religioso e spirituale, essendo parte integrante della triade «apparizioni divine - presenza di sorgenti - potere miracoloso dell’acqua».
Altro fattore imprescindibile per la vita, oltre l’acqua, è la luce, anch’essa fonte inesauribile di energia (almeno finché il nostro sole non collasserà): riscalda il Pianeta, determinando l’evaporazione delle acque superficiali e, quindi, ripristinando continuamente l’atmosfera. Consente, con l’irraggiamento luminoso giornaliero, lo svolgersi delle attività umane; regola i cicli biologici veglia/riposo, funge da catalizzatore di innumerevoli reazioni chimiche e biochimiche (es.= la sintesi clorofilliana, in cui l’energia dei fotoni attiva la clorofilla contenuta nei vegetali). Tutto questo grazie alla natura dualistica della luce: in parte ondulatoria (= un insieme di onde, che si propaga nello spazio, la cui lunghezza “ʎ” - lambda - è associata ai vari colori) ed in parte corpuscolare (= un insieme di unità singole indivisibili, o “quanti” di energia, chiamate fotoni; questi ultimi sono privi di massa, dotati di moto rettilineo e la loro frequenza – “f” - li distingue in differenti fasce energetiche).
Dovremmo sentirci veramente “piccoli” al pensiero che di tutto il complicato discorso racchiuso nel termine «luce» l’occhio umano percepisce solo una piccolissima parte centrale, quella corrispondente per l’appunto allo spettro visibile…
Anche la luce ha sempre costituito per l’uomo un supporto spirituale, oltreché energetico.
Fenomeni e manifestazioni
luminose, con le tipologie più strane e dalle interpretazioni più misteriose,
si sprecano fin dalla notte dei tempi nel corso dell’evoluzione umana. Una
ricca documentazione di questi avvenimenti si può trovare nei registri parrocchiali
di ogni parte d’Europa, essendo un tempo legati quasi esclusivamente a presunte
apparizioni di entità ritenute ultraterrene, sia benevoli (Divinità) che
maligne (Satana, il Piccolo Popolo, ecc.) e accompagnati molto spesso da
effetti prodigiosi.
Dal secondo dopoguerra, vuoi per
la “forma mentis” decisamente tecnologica che si stava imponendo alle masse,
vuoi per il conseguente allontanamento da quel misticismo che tutto aveva
permeato fino agli albori del XX secolo, l’opinione pubblica comincia a rivedere
in chiave più critica buona parte di quei fenomeni luminosi che a tutt’oggi
continuano a manifestarsi, trasferendo la concezione di “entità ultraterrena”
ad essi legata da un piano esclusivamente religioso ad un altro, quello
ufologico, intermedio tra l’Uomo e la Divinità. Quasi a voler cercare qualche
“fratello maggiore”, più evoluto e più giusto, proveniente dall’immensità del
Cosmo, che sappia dare alle immutate domande «chi siamo, donde veniamo, dove
andremo» quelle risposte che la gente sembra non voler più accettare dai dogmi
religiosi. In alcuni casi, infatti, non va considerato contraddittorio né
dissacrante l’interscambio delle due interpretazioni: quella religiosa
(tradizionale) e quella ufologica (innovativa). Il tutto confortato dalla fisiologia
del processo visivo, in sintonia coi recettori del corpo umano.
Questo, ovviamente, nell’attesa della Verità…
venerdì 21 agosto 2020
LE COMETE nostre compagne di viaggio intorno al Sole
di GIORGIO PATTERA
La cometa (dal greco κομήτης - kométes = chiomato) è un piccolo corpo celeste, costituito da un nucleo solido a base rocciosa (meteoroide) misto a gas congelati e polveri, che può descrivere intorno al Sole, seguendo le leggi di Keplero, un’orbita ellittica, parabolica o iperbolica.
Proviene dalla nube di Oort (che insieme alla fascia di Kuiper delimita i confini del nostro sistema solare) e quando si avvicina al Sole (circa 600 milioni di km.) tende a riscaldarsi, sviluppando in tal modo una “chioma” (prodotta dall’evaporazione dei gas) ed una “coda”, lunga anche centinaia di milioni di km., che è sempre respinta dal “vento solare” nella direzione opposta a quella in cui si trova il Sole (fig.1).
Fin dai tempi più antichi, l’Uomo
aveva intuito che la coda delle comete era probabilmente costituita da gas, ma,
non conoscendone ovviamente la composizione, temeva che questo potesse essere
venefico per il genere umano. Perciò, nel corso dei secoli, al passaggio delle
comete nelle vicinanze della Terra i nostri progenitori hanno sempre attribuito
conseguenze catastrofiche, quali guerre, pestilenze, inondazioni e carestie,
dovute per l’appunto ai “vapori mefitici” emanati da quegli insoliti corpi
celesti.
Al contrario: invece di portare la morte, la vita sulla Terra può aver avuto inizio proprio grazie alle comete.
L’ipotesi è stata riproposta alcuni anni fa da due astronomi, l’inglese FRED HOYLE e l’indiano CHANDRA WICKRAMASINGHE, i quali hanno ripreso in buona parte l’idea di SVANTE ARRHENIUS (premio Nobel per la Chimica nel 1903 per gli studi sulla dissociazione elettrolitica dell’acqua).
Dal 1968 in poi sono state individuate molte molecole organiche nelle nubi di gas e polveri della galassia, oltre che in vari tipi di corpi celesti (meteoriti, qualche satellite dei grandi pianeti esterni, comete stesse). Secondo l’ipotesi dei due astronomi, le comete, durante il loro viaggio, raccoglierebbero nello spazio tutte le molecole organiche che incontrano e le trasporterebbero, protette dalle micidiali radiazioni cosmiche e dalla bassissima temperatura del vuoto interstellare (-273 °C) mediante “gusci” di grafite, denominati “fullereni” (fig.2).
E poiché le comete contengono acqua (anche se in gran parte
ghiacciata), quelle molecole verrebbero a trovarsi immerse nell’elemento
indispensabile alla vita, “risvegliandosi” però solo quando la cometa,
avvicinandosi al Sole, vede innalzarsi la sua temperatura. E’ a questo punto,
attraverso una giusta combinazione dei materiali organici, che la vita potrebbe
cominciare con la formazione di microrganismi. Questi successivamente
potrebbero venir depositati su di un pianeta, quando la cometa gli passa vicino
e lo avvolge per qualche tempo nella sua coda; a patto naturalmente che il
pianeta sia, come la Terra, abbastanza vicino al proprio sole e possieda
condizioni ambientali favorevoli.
Quando si cerca di fotografare corpi di debole luminosità nel cielo notturno, occorre innanzitutto allontanarsi dai luoghi abitati, in quanto il riverbero, anche se modesto, delle luci relative agli insediamenti umani (il cosiddetto “inquinamento luminoso”) disturba sempre lo sfondo del fotogramma, oltre a rendere difficoltosa la localizzazione di quanto si cerca nella volta celeste. Inoltre bisogna tener conto che i vapori di gas più caldi dell’atmosfera (emissioni di auto, fabbriche, impianti di riscaldamento, ecc.) provocano delle “turbolenze” che vanno ad interferire con l’ottica della fotocamera, distorcendo l’immagine. Per questo è opportuno, ove possibile, approntare la postazione per la foto notturna su di un luogo elevato (collina, monte, ecc.), sempre che le condizioni meteo siano ottimali (cielo terso, meglio se con leggera brezza, assenza di nubi e della Luna).
Le pellicole più indicate sono quelle più sensibili (più “rapide, in gergo fotografico), in quanto consentono di mantenere aperto l’otturatore della fotocamera per tempi non troppo lunghi, cosa che andrebbe a discapito della qualità dell’immagine a causa della rotazione terrestre, se non si dispone di treppiede dotato di motore sincronizzato. Ideali sarebbero quelle all’infrarosso o all’ultravioletto (fig.3),
se non fosse per la difficoltà del reperimento sul mercato, della conservazione e del successivo trattamento di sviluppo. Queste ultime, infatti, sono appannaggio quasi esclusivo degli Osservatori astronomici, che dispongono di tutte le apparecchiature sopra descritte, che difficilmente un fotoamatore può permettersi.
In conclusione, vogliamo
ricordare che proprio uno di questi straordinari corpi celesti, nel 1994, fece
parlare di sé, destando enorme interesse nella comunità scientifica: stiamo
parlando della cometa Shoemaker-Levy 9, famosa perché è stata la prima cometa
ad essere osservata durante la sua caduta su un pianeta. Non era mai accaduto
infatti che una cometa fosse scoperta in orbita attorno ad un pianeta e non al
Sole. Questa, dopo essersi frammentata a contatto con l’atmosfera di Giove,
impattò sul grande pianeta con effetti indubbiamente spettacolari, ma che
alcuni, terroristicamente, presagirono avere conseguenze “devastanti” (che non
si sono verificate) per l’equilibrio gravitazionale del sistema solare. Segno,
questo, che forse l’Uomo non ha ancora del tutto superato il retaggio dei
“secoli bui”.
BIBLIOGRAFIA:
ARRHENIUS S. – L’EVOLUTION des
MONDES – BÉRANGER, Paris – 1910
HOYLE F. – LA NATURE de L’UNIVERS
- CLUB DU LIVRE, 1951
WICKRAMASINGHE C. – I DRAGHI
dell'UNIVERSO - ARMENIA 2002
RIFERIMENTI:
https://it.wikipedia.org/wiki/Svante_Arrhenius
https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Keplero
https://it.wikipedia.org/wiki/Cometa_Shoemaker-Levy_9
martedì 11 agosto 2020
VITA ED HABITAT DEL “LOMBRICUS TERRESTRIS”
…e suoi benèfici effetti sul terreno
Di GIORGIO PATTERA
Già nel 1777, in un periodo in
cui i giardinieri e gli agricoltori manifestavano il loro disprezzo per i
vermi, uno scienziato, Gilbert WHITE, naturalista britannico ed ecologista
“ante litteram”, nella sua “NATURAL HISTORY” scriveva che “…la terra diverrebbe
ben presto fredda, compatta, priva di fermentazione e, di conseguenza, sterile
senza la continua azione d’aerazione e drenaggio da parte dei lombrichi,
attività che consiste nell'introdurre foglie e gettar fuori escrementi…”.
La stima del numero dei lombrichi per ettaro è giunta fino a 6 milioni, pari a 750 kg. in peso; se il terreno viene scavato o arato, la popolazione si riduce drasticamente, per poi tornare a crescere una volta cessato il fattore di disturbo.
I lombrichi hanno buone capacità
d’adattamento ad ogni tipo di terreno (li troviamo, infatti, sia nelle praterie
sia nei boschi), tuttavia non tollerano un suolo eccessivamente acido. Se viene
superato un certo limite, infatti, il contadino se ne può accorgere subito, in
quanto i residui della vegetazione si accumulano sulla superficie del terreno
formando come un tappeto, che alla fine (10-50 anni o più) si trasforma in
torba: questo perché i lombrichi se ne sono andati, causa l'acidità.
DARWIN stimò che ogni anno i
lombrichi possono riportare in superficie tra 7,5 e 18 tonnellate di terreno
per mezzo ettaro; vale a dire che il suolo in cui lavorano, in dieci anni, può
aumentare di livello tra 2,5 e 3,2 cm., dovuti all'accumulo di humus.
Uno dei risultati dell'attività
dei lombrichi è dunque quello di formare uno strato superficiale di terreno
assai buono ed adatto alle coltivazioni; contemporaneamente le pietre, che
intralciano le colture ed il lavoro delle macchine agricole, pian piano tendono
ad essere ricoperte dall'humus, fino a sprofondare e scomparire. Sempre Darwin
calcolò che, in assenza di intervento dell'uomo, i lombrichi riescono ad
interrare le pietre al ritmo di 17 cm. ogni 100 anni: questo spiega in parte
perché tanti resti archeologici sono ancora sepolti.
Il lombrico, oggi rivalutato e
benedetto dai giardinieri, comprende molte specie nostrane, che non sono tutte
facilmente distinguibili di primo acchito.
Eisenia foetida (verme-esca) emana un forte odore, come dice il nome latino; è stato sempre ricercato dai pescatori, essendo un'ottima esca per l'amo (come dice il nome volgare).
Il più comune è senz'altro il Lumbricus terrestris, detto anche "arenicola", molto frequente nei giardini; anche questo è impiegato nella pesca con l'amo. Può raggiungere i 25 cm. di lunghezza, nulla in confronto al suo parente australiano che può essere lungo anche 330 cm.!
La sfumatura rossastra che si nota nei lombrichi è dovuta al pigmento del sangue che trasporta l'ossigeno: l'emoglobina (simile a quella presente nell'uomo). Il loro lungo corpo è diviso in segmenti simili ad anelli (circa 150), da cui la denominazione scientifica di ANELLIDI = vermi rotondi segmentati. Ogni anello è molto simile al precedente ed al successivo ed alcuni organi interni (ad es. quello escretore: il nefride, analogo al rene dell'uomo) si ripetono nella maggior parte dei segmenti. L'estremità anteriore, più affusolata rispetto al resto del corpo, è priva di occhi ed orecchie e presenta una bocca senza denti ma provvista di labbro prensile, con cui il lombrico afferra foglie, aghi di pino ed anche pezzettini di carta, che adopera per rivestire le pareti superiori delle gallerie che scava. Attorno al corpo, simile alla fascia d’un sigaro, presentano un ispessimento epidermico simile ad una cicatrice: in realtà è una ghiandola speciale, detta clitellum o “sella”, che serve alla produzione del bozzolo. Quest'ultimo, delle dimensioni di un pisello e di color bruno-scuro, contiene molte uova (i lombrichi sono ermafroditi), ma di solito sopravvive un solo embrione, che si sviluppa tra uno e cinque mesi ed è pronto a riprodursi tra i sei ed i diciotto mesi. Non si sa con certezza quanto tempo vivano i lombrichi: in cattività il L.terrestris è vissuto per 6 anni, mentre altre specie anche 10.
Come “scava” il lombrico?
Esso si muove nel terreno
esercitando un'azione meccanica, portando allo sbriciolamento delle particelle
e favorendo così gli scambi gassosi (aerazione del sottosuolo). Striscia mediante
onde peristaltiche (simili a quelle dell'intestino dei mammiferi) dirette
sempre in senso antero-posteriore, grazie alla sua robusta mu-scolatura
circolare e longitudinale ed aiutandosi anche con corte setole dirette
all'indietro (4 paia per segmento) ed allungabili a piacere.
Mentre il lombrico scava, compie anche un'azione biochimica, poiché ingerisce il terreno, lo arricchisce di sostanze necessarie allo sviluppo delle piante durante il transito nel suo tubo digerente e infine lo espelle. Alcune specie emettono la terra così elaborata in superficie, formando i caratteristici "mucchietti" di humus che si rinvengono nei prati, specie dopo abbondanti piogge.
I lombrichi possono vivere sott'acqua
anche per mesi, avendo bisogno di pochissimo ossigeno; quelli trovati morti
nelle pozzanghere sono, probabilmente, morti per altre cause. Per un lombrico,
infatti, è ben più pericoloso disseccarsi troppo che bagnarsi eccessivamente;
in caso di siccità e durante l'inverno, esso si scava delle tane profonde fino
a 2,5 m., le tappezza con la mucillagine prodotta dal clitellum e quivi si
raggomitola in stato di inattività, in attesa di tempi migliori.
Il lombrico, pur essendo cieco e
sordo, è un animale molto sensibile. Se sente una talpa che scava nelle
vicinanze, si spaventa e scappa (si fa per dire ...) subito in superficie. Se
viene catturato da un predatore (es. il merlo, ghiottissimo di questi vermi),
tende a perdere volontariamente (auto-tomìa) una parte del proprio lungo corpo,
per istinto di conservazione; un po’ come fa la lucertola…
La porzione rigettata, per azione
riflessa, spesso rigenera quella perduta.
domenica 7 giugno 2020
IL “VULCANO” DI CANETO
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