di GIORGIO PATTERA
Ricordi
d’infanzia, che ognuno conserva
di
gioie, di crucci, d’amici, di scuola,
inver
non ho molti, che il cuor mi riserva:
eccetto
mio padre e di lui la parola.
Il
giorno di festa, col tiepido sole,
soleva portarmi
sul suo motorino
a
cogliere il frutto de’ gelsi, che vuole
tener tra le mani,
sì dolce, un bambino.
Dramma
non v’era, quand’ero ammalato:
speravo
soltanto giungesse la sera,
ché
lui dal lavor sarebbe tornato
con quella
bottiglia che “frizza ed è nera”...
Non
solo per noi ei pena si dava,
ché in Chiesa recava
per quei poverelli,
cui casa ed affetto da sempre mancava,
l’invito a Gesù
di pensare anche a quelli.
Paziente
dal Libro narrava episodi,
quand’era la
mamma che uscire doveva,
di
giusti e di santi, sereno nei modi;
tant’è che alla
fin lui si commuoveva.
E
se di dormir non avevo intenzione,
inventava
all’istante l’allegro teatrino:
da
buffo pagliaccio, risate argentine
in me suscitava, finché
il capo era clino.
Cultura
a lui certo amica non era,
almeno di quella
“dei bei paroloni”;
ma
quando nei conti insegnar mi voleva,
stupirmi dovevo
delle sue operazioni.
E
quando la festa già era imminente,
l’arte più antica
sapea tramandare:
con
lenza e la canna era guida al torrente
e all’aria sì
pura m’insegnava a pescare.
Effimero
è l’uso che oggi dilaga
di far delle “feste”
per ogni occasione,
tanto
che il vezzo par quasi una piaga:
quando non c’è,
il Dottor va in pensione!
Sentimento
non muta, cambiando stagione;
non v’è l’esigenza di
merce o di sagre,
ché
nulla potrebbe cambiar l’opinione:
Questo era un
Uomo, ed era mio padre.