leggenda metropolitana o progetto
militare sfuggito di mano?
di GIORGIO PATTERA
Secondo vecchi documenti della
Marina Militare (ritrovati presso gli archivi del Centro Storico Navale e poi
occultati…), gli USA, nella continua e sfrenata ricerca di nuove tecnologie
(come i sistemi anti-radar) per aumentare la propria supremazia bellica,
condussero un presunto test nel corso del progetto denominato dalla United
States Navy “Arcobaleno”, sotto la direzione di Franklin Reno (a volte, nei
documenti, citato come il “Dott. Rinehart”), al quale avrebbero partecipato
anche uomini di scienza del calibro di Albert Einstein e Nikola Tesla. Il
progetto “Arcobaleno” avrebbe dovuto raggiungere lo scopo di deformare, tramite
un campo elettromagnetico, il flusso della luce in una determinata area e
rendere così INVISIBILE un oggetto di qualsiasi dimensione. L’esperimento parte
dalla controversa “teoria dei campi unificati di Einstein”, che presuppone una
relazione reciproca tra le forze di radiazione elettromagnetica e quella di
gravità, sfruttando per la generazione del campo magnetico, per l’appunto, le
famose bobine di Nikola Tesla.
La “chimera” dell’invisibilità
aveva preso il via a partire dagli anni ‘30.
Nel 1931 una commissione di scienziati si riuniva all’Università di Chicago per progettare i futuri esperimenti, sotto la guida del rettore John Hutchinson e del suo “assistente” Emil Kirtenauer. Due anni più tardi l’intero progetto fu trasferito al Princeton’s Institute of Advanced Studies e qui si unirono al gruppo Albert Einstein e John von Neumann. Nel 1934 fu la volta di Nikola Tesla, convocato dallo stesso presidente Roosevelt; i primi test di laboratorio furono condotti nel 1936 con un discreto successo, ottenendo un’invisibilità parziale, che fu sufficiente ad incoraggiare il proseguimento delle ricerche. A quel punto entrò nel team il Dr. Gustave Le Bon, seguito nel 1940 dai Dottori Clarkston e Thomas Townsend Brown [1]: il primo esperimento all’aperto si svolse a Brooklyn nel 1940, sotto la guida di Nikola Tesla. In un cantiere della Marina fu approntata una piccola nave senza equipaggio, alimentata via cavo da altre due navi poste ai lati, così che si potesse interrompere la corrente in caso d’incidenti. L’esperimento ebbe comunque successo e la nave diventò invisibile come previsto.
E fu così che si giunse al…
28 ottobre 1943, h. 17:15.
Il cacciatorpediniere ELDRIDGE DE-173, ancorato nel porto di Filadelfia (Pennsylvania), è il protagonista di questo incredibile evento: nel giro di pochi secondi svanisce in una luminescenza verdastra e solo l’incavo dello scafo sull’acqua calma della dàrsena rimane a testimoniare la presenza della nave, che si rimaterializza nello stesso punto dopo alcuni minuti.
Effetto accidentale d’invisibilità della materia, consequenziale al progetto di “mimetizzazione elettronica anti-radar”, compiuto dagli americani sul finire della seconda guerra mondiale? Fenomeno di teletrasporto? (Da più parti si asserisce, infatti, che la nave sia apparsa nel porto di Norfolk, Virginia, proprio nel periodo in cui era mancata da Filadelfia). Tragico errore nell’ambito della sperimentazione di difesa anti-mine magnetiche in dotazione alla Germania di Hitler, causa di tanti affondamenti di navi americane?
In ogni caso la Marina degli Stati Uniti ha fatto di tutto per tenere nascosto l’episodio. Tuttavia qualcosa è trapelato; anzi, si è avuta notizia dei disastrosi effetti che l’esperimento avrebbe provocato sui membri dell’equipaggio, nessuno dei quali sarebbe rimasto immune da gravissime conseguenze. Nel migliore dei casi, si parla di pazzia; nel peggiore, di effetti allucinanti (i marinai rimasero come “congelati” o “bruciarono per giorni interi”).
Cosa c’è di vero? Purtroppo non ci è dato sapere molto sull’argomento e finché la Marina Americana non si deciderà a rendere pubblico il «Dossier Filadelfia», grazie al F.O.I.A. (Freedom of Information Act = legge sulla libertà d’informazione), possiamo solo ipotizzare.
Sappiamo che negli anni di poco precedenti il 1943 un gruppo di scienziati, tra cui Albert Einstein e Nìkola Tesla, stava studiando la tendenza di un condensatore elettrico, caricato a tensione molto elevata, a muoversi verso il polo positivo. Sembra che questi siano riusciti a far volare dei condensatori discoidali di vario diametro, dopo averli caricati con tensioni dell’ordine di DECINE DI MIGLIAIA DI VOLTS.
Che l’Esperimento Filadelfia sia
stato la “prova generale” di questi studi?
Pare che sulla nave fosse infatti
montato un enorme magnete, circondato da bobine attraverso le quali passava la
corrente prodotta da un grande generatore elettrico. Secondo altri, l’Eldridge
era fiancheggiato da altre due navi, che fornivano energia al
cacciatorpediniere.
Di certo, comunque, non si sa
nulla: i testimoni, ormai, sono rimasti in pochi e, tra i pochi, alcuni sono
reticenti, altri non molto attendibili.
Qualcosa deve essere successo,
d’altronde, se è vero che nei mesi successivi alla vicenda si verificarono
alcuni strani episodi, aventi come protagonisti gli uomini che si trovavano a
bordo dell’Eldridge al momento del fatto. Uno di loro divenne “invisibile”
mentre beveva qualcosa al tavolo di un bar e non fu più possibile localizzarlo,
pur udendone la voce, se non con la tecnica della “contrapposizione delle
mani”; altri furono protagonisti di inauditi episodi di violenza.
Certo, possiamo immaginare quale
shock sia stato per quegli uomini il trovarsi fisicamente ed emotivamente
coinvolti in un campo di forze tale da trasportare una nave, pesante alcune
migliaia di tonnellate, a migliaia di miglia di distanza! Purtroppo per loro,
non fu possibile formulare alcuna prognosi né adottare alcuna terapia, in
quanto hanno rappresentato (e lo sono a tutt’oggi) un caso “unico” nella storia
della medicina.
Da più parti si è anche parlato
di contatti da parte degli uomini imbarcati sull’Eldridge al momento dell’incidente
con presunte “entità aliene”.
Non possiamo certo dimostrarlo,
ma nemmeno escluderlo, se si pensa che molti ritengono gli alieni “curiosi” di
ogni attività umana di una certa importanza, specie quando vengano maneggiate
grandi sorgenti di energia (es. nucleare) o siano implicati giganteschi campi
di forza (magnetismo terrestre).
Troppo poco ne sappiamo per
continuare: di certo l’Esperimento Filadelfia, se si è verificato (e finora
nulla vieta di crederlo), ha aperto porte sconosciute su dimensioni inimmaginabili
(quelle ipotizzate da Einstein “ultima maniera”, a parziale revisione delle
teorie relativistiche). Porte che sono state, a quanto pare, subito richiuse, a
causa dell’eccezionalità di ciò che celavano, della pericolosità (e non solo
per l’uomo) delle forze in gioco e per l’incapacità da parte di chi le aveva
spalancate di dominare l’immensa energia che ne era scaturita.
Tuttavia recentemente alcuni
ricercatori americani hanno teorizzato, dopo svariati studi, che la
smagnetizzazione di un oggetto, di qualunque dimensione, possa in effetti
renderlo invisibile. A questo proposito ricordiamo che nell'ottobre del 2006
alla Duke University di Durham (Carolina del Nord) si sarebbe riusciti ad
ottenere un effetto simile a quello presupposto dall'esperimento, su scala
molto ridotta e solo per quanto riguarda alcuni tipi di microonde
elettromagnetiche.
Ma siamo convinti che in un
futuro non molto lontano queste porte verranno nuovamente dischiuse, non senza
aver provveduto ad approntare idonei mezzi di protezione e di controllo nei
confronti di quelle forze ancora sconosciute con cui l’Uomo, inevitabilmente, è
destinato a venire in contatto e che potrebbero risultare decisive per lo
sviluppo della propria evoluzione e, in ultima analisi, per la sopravvivenza
del genere umano (viaggi extra-solari).
[1] = Fisico statunitense, laureato alla Denison University di
Granville, nell’Ohio. Collaborò negli anni ’20 con il prof. Paul Alfred
Biefeld, identificando un nuovo principio fisico, che prese il nome di “effetto
Biefeld-Brown”. Il fenomeno riguarda la tendenza di un condensatore elettrico,
caricato a tensione molto elevata, a muoversi in direzione del polo positivo.
In una dimostrazione pubblica, Brown usò quest’effetto per sollevare una serie
di dischi Ø 90 cm. e farli volare su una traiettoria circolare di 15 metri di
diametro. Nei laboratori della francese Société Nationale de Construction
Aéronautique Sud-Ouest, Brown raggiunse velocità di diverse centinaia di Km/h,
impiegando tensioni comprese tra i 100.000 e i 200.000 volts. Il rendimento
risultò maggiore nel vuoto spinto, smentendo coloro che interpretavano la
levitazione dei dischi come il risultato della ionizzazione dell’aria e dei
conseguenti urti tra le sue molecole. Negli anni ’50 Brown dimostrò di fronte
al pubblico (alla presenza di osservatori militari) di poter usare il suo
effetto per ridurre il peso di qualunque oggetto del 30%. Sempre negli anni
’50, l’effetto Biefeld-Brown fu esaminato all’interno del programma statunitense
per la propulsione a gravitá controllata, precisamente dalla Gravity Research
Foundation, l’Aerospace Research Laboratories (ARL) e il Research Institute for
Advanced Study (RIAS).
I lavori di Brown sono
considerati controversi, in quanto potrebbero dimostrare (ed anche lui ne era
convinto) il modo di sostentamento e di propulsione degli UFO. Brown fu uno dei
primi investigatori in campo ufologico e nel 1956 fondò, insieme con Donald
Keyhoe, il NICAP (National Investigations Committee On Aerial Phenomena),
organizzazione civile molto seria ed influente in ambito ufologico. L'attività
del NICAP (manco a dirlo) attirò l'attenzione della CIA e diversi alti
ufficiali si infiltrarono nel gruppo.
<< Oggigiorno il più grande ostacolo al progresso scientifico è
il rifiuto di alcuni,
scienziati inclusi, a credere che possano accadere fenomeni in
apparenza fantastici >>.
BIBLIOGRAFIA
Moore/Berlitz – ESPERIMENTO FILADELFIA – Sonzogno, 1979
RIFERIMENTI
https://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_di_Filadelfia
https://ilviandantediecate.wordpress.com/2013/10/28/uss-eldridge/
https://megachirottera.blogspot.com/2019/05/quel-giorno-philadelphia.html
http://stopilluminati.weebly.com/philadelphia.html#_ftnref2