di GIORGIO PATTERA
Le tradizioni, civili e
religiose, dell’umano consesso non risultano univoche, per quanto riguarda la
data in cui si celebra la ricorrenza del Capodanno. Ma non occorre spingerci,
ad es., nella lontana Cina (che festeggia il Capodanno lunare in corrispondenza
del novilunio, tra il 21 gennaio e il 20 febbraio) per sottolinearne la
diversità: già tra le popolazioni del nostro occidente, in un passato non
lontanissimo, la cultura Celtica faceva eccezione, posizionando il Capodanno
nella notte fra il 31 ottobre ed il 1° novembre. Questo perché il “modus
vivendi” dei Celti, imperniato principalmente in attività agricolo-pastorali,
si rapportava strettamente ai cicli della Natura, alle sue regole ed alle sue
esigenze. Di conseguenza, col mese di ottobre, per loro, terminava l’anno
“lavorativo” e ne iniziava uno “nuovo”, previo un intervallo (l’inverno)
dedicato alla quiescenza ed al rinnovo delle energie, sia di Madre Natura che
dell’Uomo…
Ecco quindi comparire nel calendario celtico rinvenuto a Coligny (Francia centro-orientale) il termine SAMHAIN (o Samonios, come veniva chiamato dai celti insubri del Nord Italia), la cui etimologia deriverebbe dall'irlandese antico (= "la fine dell'estate"), mentre in gaelico significa "Novembre". ...
E siccome per i Celti, a Novembre, con la Natura “morivano” anche gli uomini (= si interrompevano le gravose attività agricole), vediamo ora come questa antica civiltà considerava i defunti.
Secondo i Celti, a Samhain, nome
celtico del Capodanno, si aprivano le porte fra il Regno dell’Al-di-qua e
l’Altro-mondo. I morti risiedevano in una terra di eterna giovinezza e di
felicità, molto spesso descritta come un’isola beata e si riteneva che in certe
occasioni potessero soggiornare sulle colline, insieme col misterioso “Popolo
Fatato”.
Nella notte di Samhain tutte le
leggi dello spazio e del tempo erano sospese, permettendo agli spiriti dei
morti (e talora anche dei vivi) di passare liberamente da un mondo all’altro.
Il confine invalicabile fra
l’Aldiqua e l’Altromondo si faceva più sottile e cedevole, permettendo alle
anime di mostrarsi o di comunicare con i viventi. Per questa ragione sono nate
e si sono consolidate le celebrazioni in onore dei defunti, tradizioni giunte
fino ai giorni nostri con qualche rituale che si mantiene inalterato nel tempo
(ad es., accendere i “lumini” sulle tombe, anche se nessuno sa o ricorda più
«perché si usa fare così»).
L’anno si rinnova…
Tradizionalmente il Capodanno
Celtico si celebra a partire dal tramonto del sole, tra il 31 ottobre e il 1°
novembre. Questo era il momento più solenne e importante: rappresentava il
rinnovamento dell’anno, la fine e l’inizio di un ciclo in natura, nella vita
quotidiana e nella sfera più intima e profonda della vita stessa, la
spiritualità. Questo Capodanno segnava la fine dell’estate e l’inizio
dell’inverno, la notte era più lunga del giorno e l’anno nuovo si raffreddava
gradualmente nella sua metà oscura e sotterranea. Samhain era chiamato anche
“Trinoux Samonia”, ovvero “Tre Notti di Fine Estate” ed i festeggiamenti si
protraevano quindi per tre giornate, se non addirittura per una decina di
giorni.
Alla luce di quest’ultimo
particolare, sembra che anche la festa di San Martino di Tours (11 novembre)
sia una specie di “capo d’anno”, in quanto vi si ritrovano alcune delle
connotazioni proprie del Samhain Celtico. Anticamente l’11 novembre coincideva
con l’inizio d’un ciclo annuale, testimoniato non solo dall’aspetto
folkloristico. Un tempo, infatti, a San Martino cominciava l’attività dei
Tribunali, delle Scuole e dei Parlamenti; si tenevano le elezioni municipali;
si pagavano affitti, rendite e locazioni; venivano rinnovati i contratti
agrari, oppure si traslocava, tant’è vero che ancor oggi nel linguaggio
popolare “fare San Martino” equivale a “traslocare”.
L’antica “Festa dei Morti”
Molte leggende celtiche, in cui
si narrano cicli epici di re ed eroi, si svolgevano nella notte di Samhain.
Queste leggende si ricollegavano ai cicli di fertilità della Terra ed
all'inizio del regno semestrale dell’Oscurità. Per i Celti, popolo dedito
all'agricoltura e alla pastorizia, questa ricorrenza assumeva un’importanza
particolarissima. La vita quotidiana cambiava radicalmente: le greggi venivano
riportate giù dagli alpeggi e dai pascoli estivi; si raccoglievano le ultime
mele; le coltivazioni non davano più frutti ed i campi venivano preparati per
la nuova semina; le famiglie si chiudevano nelle cascine per trascorrere al
caldo le lunghe e fredde notti invernali, dedicate a lavori artigianali
(costruzione e/o riparazione di utensili), al chiacchiericcio di storie,
leggende e filastrocche.
In alcune regioni del nord
Europa, in particolare nelle Highlands scozzesi, i giovani uomini percorrevano
i confini delle fattorie, dopo il tramonto, tenendo in mano delle torce
fiammeggianti per proteggere le famiglie dalle Fate e dalle forze malevole,
libere quella notte di camminare sulla terra. Questo era il momento in cui si
poteva facilmente prevedere il futuro e la sorte, una tradizione che è rimasta
“impigliata” in molte usanze folkloriche.
Com’è nata l’attuale “Festa dei Morti”
Lo spiega compiutamente proprio
Eraldo Baldini: «Con l’affermarsi della nuova religione cristiana, la Chiesa
cercò di cancellare le antiche feste “pagane”, cioè appartenenti a religioni
precedenti, non abolendole, ma appropriandosene, riconducendole nel proprio
ambito e mantenendone vivi solo la data, ma in parte anche il significato.
Così, per cristianizzare il Capodanno Celtico, la chiesa pose al 1° novembre la
festa di Ognissanti, alla cui diffusione contribuì soprattutto Alcuino (735 –
804), l’autorevole consigliere di Carlo Magno. Qualche decennio dopo,
l’imperatore Ludovico il Pio, su richiesta di papa Gregorio IV (827 – 844),
ispirato a sua volta dai vescovi locali, la estese a tutto il regno franco. Ma
ci vollero ancora molti secoli perché il 1° novembre diventasse per tutta la
Chiesa d’occidente la festa di Ognissanti: fu infatti papa Sisto IV a renderla
obbligatoria nel 1475. Per non snaturare completamente le caratteristiche della
“festa dei morti” dell’antico Capodanno Celtico, preso atto che comunque il
popolo (e in larga parte anche il clero) continuava a conservarle, la Chiesa
dedicò il giorno successivo, 2 novembre, alla Commemorazione dei defunti.
Fu Odilone di Cluny, nel 998, a
ordinare ai Cenobi dipendenti dell’abbazia di celebrare l’ufficio dei defunti a
partire dal vespro del primo di novembre, mentre il giorno seguente i sacerdoti
avrebbero offerto al Signore l’Eucarestia “pro requie omnium defunctorum”. Il
rito poi si diffuse a poco a poco al resto d’Europa, giungendo a Roma solo nel
XIV secolo.
Al di là dei dati storici e degli
aspetti della religiosità “ufficiale”, certo è che nel folklore europeo (e
quindi anche italiano) i primi giorni di novembre hanno conservato aspetti che
riportano ad un antico capodanno: per esempio, l’usanza in varie parti d’Italia
di portare in regalo in quei giorni le “strenne”, per lo più costituite da dolciumi
per i più piccoli. In questo caso, la tradizione vuole che i doni siano portati
proprio dai defunti.
L’ospitalità agli antenati e il ristoro
Un tema fondamentale della Festa
dei Morti è il rispetto e l’ospitalità nei confronti dei defunti, i nostri antenati
che ritornano in questo mondo per una notte. Le anime dei trapassati devono, in
quel giorno, venir confortate e placate, affinché (al pari delle divinità e del
Popolo Fatato) siano propizie allo svolgersi dell'anno che ricomincia. Con il
Cristianesimo, il culto popolare si muove su un piano di preghiera e di
suffragio, ma nel frattempo i riflessi delle antiche tradizioni rimangono
inamovibili in alcune usanze proprie a tutti i ceti sociali, dal più ricco al
più povero: una di queste, sopravvissuta nel corso dei secoli, recita di porre
lumini accesi sulle tombe dei propri cari. In passato, durante questa notte,
anche la casa restava illuminata da una candela, che si accendeva per rendere
più agevole il cammino dei defunti verso la loro antica dimora e la loro
famiglia terrena. Da noi (ma anche nel resto dell’Europa) la tradizionale
accoglienza si ritrova in varie usanze, ancora vive in parte nei piccoli
centri, ma in gran parte completamente abbandonate. Ecco qualche esempio…
In Romagna una volta tutti si
alzavano di buon’ora e i letti erano lasciati liberi per il riposo degli
antenati. Si racconta che per l’occasione la massaia «cambia le lenzuola e le
sceglie candide di bucato e odorose di spigo: appronta i letti per i morti
della casa, che vi tornano a riposare stanchi del viaggio percorso
dall’eternità». Anche nel Cremasco ci si alzava per tempo e si sprimacciavano
bene i letti, perché i trapassati potessero trovarvi riposo.
Il banchetto è un’usanza
registrata in molte regioni: quando arrivano in casa, i defunti devono trovare
anche cibo e ristoro, così la mensa non si sparecchia e si lascia tutto pulito
e ordinato.
I rituali delle offerte, della
questua e dei banchetti
Cibo tradizionalissimo per la
ricorrenza dei Morti sono le fave: secondo gli antichi contenevano le anime dei
loro trapassati ed erano sacre ai morti. Le fave, che per prime sbucavano dal
terreno primaverile dopo che il seme era stato sepolto nella terra, erano il
simbolo della resurrezione, già nell’antichissima credenza precristiana, il
segno che le anime dei morti non perivano con il corpo. Anche oggi, in
occasione delle festività dei primi di novembre, le «favette» o «fave dei
morti» hanno questo arcaico e nobile significato. A Voghera e nell’Oltrepò
Pavese si cantava e si mimava il gioco de “La bela vilana la pianta la fava...
facendo in questa guisa», ripetendo inconsapevolmente una arcaica danza di
incantesimo degli agricoltori per propiziarsi la produttività della terra.
La fava, antico ingrediente anche
per i filtri delle fattucchiere è giunta attraverso i tempi con la sua carica
di virtù magica al guanciale delle donne (specialmente lombarde) per predire
fortuna o sfortuna domestica e nozze più o meno felici. Il rito si compie così:
sotto il cuscino si pongono tre fave dentro un sacchetto, una intatta, una
semi-sbucciata e una mondata. Quest’ultima sarebbe la maledetta, che predice
una disgrazia o un marito spiantato, se estratta per prima al mattino.
C’è anche il rito, altrettanto
celtico, dove si predice la sorte con una mela ma… ve lo racconteremo al
prossimo Capodanno !
Fonti:
Trigallia - Il Portale delle
Feste Celtiche - http://www.trigallia.com/capodanno.asp
https://www.facebook.com/AlfredoCattabiani/posts/213111028860548:0
Baldini E. - “La festa di Halloween in Romagna e nella Padania: moda importata o tradizione millenaria?” - appendice a “Romagna Celtica” di A.Calvetti, Longo Editore, Ravenna, 2000.