Le Stelle sono piccolissime
fessure,
attraverso le quali fuoriesce la
luce dell’Infinito…
(Confucio)
di GIORGIO PATTERA
Fin dalle epoche più remote i
popoli si dedicarono allo studio del cielo, indotti dal fascino che la volta
stellata esercita sull'uomo, ma anche dalla necessità di stabilire calendari
idonei a programmare le varie attività agricole, secondo il volgere delle
stagioni, nonché di orientarsi nei grandi spostamenti, sia per terra che per
mare. L'osservazione del firmamento costituisce infatti, ancor oggi, la
garanzia di base per una corretta navigazione. In un secondo tempo, sempre per
il fascino che le stelle esercitano sull’uomo e per poter in un certo modo
collegare la volta celeste con lo svolgersi della propria vita, sono nati lo
Zodiaco e la Divinazione.
E’ forse per questo motivo che tutte le culture hanno
sempre contemplato una forma di predizione del tutto particolare: l’oroscopo.
Probabilmente non tutti sanno che questo termine, così usato (ed anche
ultimamente inflazionato) nel comune linguaggio quotidiano, possiede una
derivazione etimologica ben precisa. Deriva infatti dal lemma greco Oroscòpion,
composto dal verbo skopéo (che significa osservo) e dal sostantivo ora (che, in
quest’accezione, assume il significato più ampio di tempo). Quindi,
letteralmente, “l’osservazione del tempo”, cioè della situazione rispettiva dei
corpi celesti nel momento in cui avviene la nascita, per poter presagire gli
avvenimenti futuri nella vita dell’individuo (a questo proposito, cfr. la ns.
ricerca “Siamo figli delle Stelle?”, in questo stesso blog, al link
https://giorgiopattera.blogspot.com/2020/06/siamo-figli-delle-stelle-eredita-extra.html
I CELTI attribuivano grande
importanza ai corpi celesti, quali le Stelle, il Sole e la Luna: questi ultimi,
con i loro movimenti ciclici, si rivelano fondamentali per la suddivisione del
tempo. L’anno era essenzialmente basato su due eventi: il sorgere di ALDEBARAN
e quello di ANTARES, che segnavano i due periodi fondamentali: quello caldo e
quello freddo. Il calendario celtico, basato sulla Luna, era molto complicato,
ma ad un tempo talmente preciso (per l’epoca), che poteva addirittura prevedere
le eclissi di Luna o di Sole con un errore di soli 3 giorni!
Il cielo del 500 a.C. (nel
periodo del massimo sviluppo della cultura celtica in Europa) era leggermente
diverso da quello cui siamo abituati oggi, a causa del fenomeno della
“precessione degli equinozi”, secondo il quale l’inclinazione dell’asse di rotazione
terrestre varia ogni 25.786 anni circa. Questo perché il piano equatoriale,
perpendicolare all'asse di rotazione terrestre e passante per l'equatore, non
coincide con il piano dell'eclittica, contenente l'orbita descritta dalla Terra
nella sua rivoluzione intorno al Sole, ma forma con essa un angolo di 23°27'.
Per tale fenomeno, la stella più vicina al polo nord celeste, nel 500 a.C., non
era l’attuale stella Polare (tra circa 13.000 anni sarà Vega), ma Kochab,
sempre nella costellazione dell’Orsa minore; ciò rendeva possibile osservare
dalla Gallia alcune costellazioni oggi visibili solo dall’emisfero australe.
In corrispondenza del 1°
novembre, festa di Samain, era in levata eliaca (= il sorgere d’un astro quasi
contemporaneamente al Sole) Antares, una stella rossa di prima magnitudine, la
più luminosa della costellazione dello Scorpione. Ad Imbolc, circa il 1°
febbraio, era in levata eliaca Capella, stella gialla della costellazione
dell’Auriga, anch’essa di prima magnitudine. A Beltaine, il 1° maggio, sorgeva
poco prima del Sole la stella rossa Aldebaran, la più luminosa della
costellazione del Toro. Il colore della stella sembrava intonarsi perfettamente
col colore del fuoco, associato al dio Belenus. Infine Sirio, la stella più
luminosa di tutto l’emisfero boreale, nella costellazione del Cane maggiore,
sorgeva eliacamente al 1° agosto, in corrispondenza della festa di Lugnasad. La
stella più brillante, dunque, era associata a Lug, la divinità celtica più
importante.
Tutte le popolazioni antiche hanno
sempre alzato lo sguardo al cielo, con la speranza di ricavarne indicazioni
utili per la vita sulla terra. Tuttavia, ribadiamo, l’attenzione che i Druidi
(i mitici sciamani celtici) riservavano al cielo ed alle costellazioni non era
finalizzata all’uso astrologico: l’astrologia, infatti, si diffonderà solamente
più tardi, come “modus vivendi” di provenienza orientale, importata in
occidente dai Romani in seguito agli influssi etnici assorbiti nei contatti con
i popoli dell’Asia minore. L’astrologia occidentale ha così suddiviso
l’eclittica (= piano dell’orbita terrestre intorno al Sole) nei dodici segni
tradizionali, il cui nome anticamente si legava alle costellazioni osservabili
lungo la fascia di cielo detta Zodiaco.
Ma culture diverse hanno in
passato elaborato concezioni diverse, che ancor oggi mostrano una loro
validità: fra tutte emerge in particolar modo l’oroscopo celtico, da cui si
evidenzia (se mai ce ne fosse bisogno) il legame indissolubile che i Celti
avevano stretto con le forze e gli elementi della Natura. Quella celtica era
una popolazione presente fin dagli albori su gran parte del territorio europeo,
compreso il nord Italia, corrispondente grosso modo all’odierna pianura padana.
Gran parte della giornata e dell’intera vita si svolgeva nelle foreste e le
leggende ricamate intorno a questo magico popolo, conservate a stento nel
“background” culturale delle nostre tradizioni, sono state tramandate
oralmente.
I sacerdoti celti (ad un tempo
cosmologi, erboristi e uomini di scienza in generale) avevano sviluppato una
forma di “astrologia” del tutto particolare: il loro sistema era articolato su
22 “segni”, ognuno dei quali corrispondeva ad un ALBERO, le cui virtù avrebbero
influito sulle persone nate in quei giorni. Per i Druidi, l’albero rappresentava
il ciclo della vita e la correlazione fra le tre parti del cosmo: il sottosuolo
(le radici), la terra (il tronco) ed il cielo (la chioma). Inoltre, da profondi
conoscitori degli eventi celesti, suddivisero il percorso apparente del sole in
vari settori, attribuendo a ciascuno l’albero che, per le sue caratteristiche,
più si adattava a quel momento dell’anno. I 22 alberi individuati dalla cultura
celtica caratterizzano quindi ciclicamente le persone nate nei diversi periodi
dell'anno.
Per questo, è lecito ipotizzare
che i Celti tenessero in gran considerazione il concetto “così è in alto, come
in basso”, per poter collegare le analogie tra le forze della Natura e quelle
umane: ad ogni costellazione fu pertanto assegnato un albero, considerato “simbolo
di vita”.
In conclusione, l’impronta
lasciata da un popolo si misura dalla sua saggezza e dalla sua spontaneità
culturale: se questo è vero, si può tranquillamente ritenere che, quella dei
Celti, sia stata una delle più grandi civiltà esistite sul nostro Pianeta.
A questo punto, come direbbe
qualcuno, la domanda sorge spontanea: ma era proprio tutta farina del loro
sacco? Domanda, questa, che gli addetti ai lavori si sono posti in circostanze
similari: Sumeri, Egizi, Maya…
Anche in questo caso ci sentiamo
di azzardare un “NO” deciso, alla luce di quanto andremo ad esporre.
«Io conosco dei racconti che sono
venuti dal Cielo…»
(Taliésin, bardo gallese – V°
sec.d.C.)
E’ ormai da quasi mezzo secolo
che molti ricercatori dell’ignoto orientano i loro lavori nel tentativo di
demitizzare i personaggi, strani e favolosi, che affollano le leggende, le
tradizioni, le mitologie ed i “pantheon” religiosi dei popoli antichi. Alcuni
di questi ricercatori, che definire “coraggiosi” è quanto meno riduttivo, sono
giunti all’incredibile conclusione che la grande maggioranza di queste
misteriose entità superiori, più o meno divinizzate dalle credenze popolari,
altro non erano che una specie di “coloni”, venuti, se così si può dire, da
pianeti lontani a bordo di “carri di fuoco”, quegli stessi che oggi chiamiamo
“dischi volanti”, U.F.O. o, “prudentemente”, O.V.N.I. (oggetti volanti non
identificati), fino a giungere all’acronimo U.A.P. (Unidentified Aerial
Phenomena) coniato nel 2015 dal Pentagono.
Ora, le ricerche di questi
“picconatori di testi sacri” sono in grado di affermare che lo studio
approfondito ed asettico della Tradizione Celtica può confermare tutto ciò che
i colleghi “ortodossi” hanno scoperto nelle tradizioni degli altri popoli:
Sumeri, Assiri, Babilonesi, Iraniani, Indù, Maya, Egizi, Greci, Ebrei. Il
tutto, però, osservato con ottica diversa o, meglio, possibilista: in antitesi,
cioè, con la classificazione di “oggetti e/o manufatti non riconducibili ad
un’identificazione certa” mediante l’etichetta, frettolosa e superficiale, di
“oggetto rituale” o “di culto”, che i canoni dell’archeologia “ufficiale” sono
soliti attribuire a tutto ciò che non riescono a spiegare.
In questo modo si giunge a
precisazioni estremamente interessanti sulle conoscenze scientifiche di quei
“colonizzatori venuti dal cielo” che i nostri lontani progenitori chiamavano
“gli dèi”; sulla loro particolare natura, a volte simile ed a volte diversa da
quella umana; ed infine, dettaglio che si rinviene esclusivamente nella
tradizione celtica, sulle coordinate spaziali di provenienza di quei
“visitatori” che, in un remoto passato, s’insediarono nelle regioni
pre-Celtiche.
A causa della mancanza di
documentazioni – i Celti avevano un proprio alfabeto, l’Ogham, ma trasmettevano
il sapere agli iniziati solo oralmente – e dell’ostracismo nei confronti della
cultura celtica dopo la conquista da parte delle legioni di Cesare, nessuno
finora aveva pensato di chiarire il mistero degli esseri che “operavano” prima
degli uomini nel nord-Europa. Ed ora ci proveremo noi.
Anche gli Dèi hanno i “carri”…
All’epoca dei Celti, come in
tutti i tempi lontani, i comuni mortali usavano il cavallo per gli spostamenti.
I più fortunati (pochi, in verità) possedevano anche un carro, cui attaccavano
un cavallo o (i personaggi importanti) eccezionalmente due. Ma i “carri” di
coloro che venivano chiamati “gli Dèi accorsi dal cielo” erano molto diversi
dal tipo classico: sentiamo come li descrive Arbois de Jubainville nel trattato
“Druides et Dieux en forme d’animaux”: «…La dea Badb si muoveva con un carro al
quale era attaccato un solo cavallo rosso. Questo cavallo aveva una sola zampa;
il timone del carro gli passava attraverso il corpo e la sua punta usciva dalla
fronte del cavallo stesso, che ne faceva al contempo da sostegno. Alla fine del
carro c’era un mantello rosso, che ricadeva al suolo e spazzava il terreno…».
Certo che avere una zampa sola dev’essere ben “fastidioso” per un animale che
deve galoppare! Soltanto per stare in piedi, il “cavallo ad una gamba” è
obbligato, per sostenersi, ad appoggiarsi al carro e visto che il timone gli
attraversa il corpo, sarebbe più semplice dire che questo singolare “equino”
faceva tutt’uno col veicolo.
A questo punto, tralasciando le allegorie
mitologiche che circondano la presunta “divinità”, derivate dal substrato
culturale delle popolazioni cui si manifestavano quelle strane apparizioni, non
è contraddittorio azzardare l’ipotesi che il “carro” con cui si spostava la dea
Badb non fosse altro che un “velivolo”, in cui il “cavallo” ad una zampa
corrisponde allo scafo dotato di puntello (come descritto in alcuni OVNI) ed il
“timone” ad un alettone direzionale o ad un albero d’elica. (Curiosamente
simile è la ricostruzione effettuata da Blumrich, ingegnere NASA, circa il
“carro di fuoco” descritto dal Profeta Ezechiele nell’Antico Testamento, 1°,
vers.1-28). Quanto al “mantello rosso” trascinato posteriormente, è fin troppo
facile individuare in esso il bagliore emesso dal sistema di propulsione.
Se ciò fosse vero, si
comprenderebbe il motivo per cui i “carri degli Dèi” raggiungessero velocità
vertiginose, con le quali “…nessun altro carro poteva rivaleggiare…”.
«Improvvisamente – prosegue l’autore irlandese nella sua ricostruzione – il
carro (letteralmente) “s’involò a velocità prodigiosa, in quanto la dea si era
mutata in un grande uccello nero”. Da quel momento in poi, i Bardi irlandesi,
allorché dovranno descrivere quegli “oggetti volanti” mai visti prima, li
chiameranno “uccelli neri”». In un altro lavoro del predetto autore, la stessa
dea Badb, al momento di “involarsi”, viene accompagnata da un’espressione
pittoresca: “…sparì in una Gloria…”.
Questo termine inconsueto,
“Gloria” (si ritrova anche nella dizione “un cielo di gloria”), si traduceva
nei tempi antichi come “un irraggiamento di porpora e d’oro”, descrizione molto
simile a quella usata da Ezechiele nel momento di avvistare ciò che riteneva,
appunto, “la Gloria del Signore”; ed anche, facendo un parallelo con i giorni
nostri, ai resoconti dei testimoni di fenomeni UFO, che confermano il comparire
e lo scomparire dei misteriosi oggetti come “avvolti da un alone luminoso,
cangiante dal rosso fuoco (porpora) al giallo-aranciato (oro)”.
Ma oltre che in cielo, anche in
mare gli “Dèi celtici” detenevano un dominio incontrastato; anzi, addirittura
sotto il mare: sembra infatti che per gli spostamenti sulla fase liquida
utilizzassero “…vascelli d’argento che navigavano sotto le acque…”. Questo ci
riporta alla mente l’incredibile viaggio del Profeta Giona nel ventre di
quell’animale marino che identificò in una balena; una balena davvero strana,
tuttavia, in quanto provvista di “occhi sui fianchi” (oblò?). E come non
ricordare il Tripura vimana, che ritroviamo nel “Vymaanika Shaastra”, poema epico indù risalente a circa
4.000 anni fa?
Le armi degli “Dèi”
“… I loro compagni erano spariti,
senza lasciare traccia…”
(da Manawyddan)
Da «Dieux et héros des Celtes»,
di M.L.Sjoestedt, attingiamo: «…Il “vestiario da guerra” degli Dèi celtici era
alquanto diverso da quello dei comuni guerrieri. Una delle divinità-guerriere
più temibili era Balor: si trattava di un “ciclope”. Il suo unico “occhio”,
tuttavia, possedeva una straordinaria peculiarità: quando si apriva (a riposo
era protetto da una pesante “palpebra”), “… il suo sguardo abbracciava
l’insieme delle forze avversarie, che cadevano folgorate dal lampo che ne
scaturiva…”».
Traslazioni mitologiche a parte, siamo convinti che Balor, in
realtà, calzava un casco particolare, provvisto d’apposita schermatura che gli
consentiva di vedere attraverso, tanto da farlo sembrare privo degli occhi;
casco sormontato da un’apertura, regolata da un otturatore (palpebra), il quale,
aprendosi, lasciava partire una radiazione micidiale (lampo), probabilmente un
raggio laser, azionato da chi indossava quell’elmo inusitato.
A corroborare
quanto affermato, possiamo aggiungere che ci siamo orientati sulla strada del
Laser, in quanto sui “caschi” delle divinità combattenti, portati alla luce
durante gli scavi archeologici negli insediamenti celtici, sono stati rinvenuti
cristalli di RUBINO: com’è noto, il rubino si trova alla base della generazione
del raggio laser, perlomeno di quello di prima generazione. Tutto questo può
far pensare ad una produzione fantascientifica “ante litteram”, se non fosse
che, ai giorni nostri, le truppe speciali di sicurezza di molti Paesi sono
dotate, per l’appunto, di casco sormontato da puntatore laser, di cui
basterebbe variare la frequenza per trasformarlo in arma letale. Di questo
particolarissimo copricapo non abbiamo il nome, mentre conosciamo la
denominazione di un’altra terribile arma: Gaebolg, ovvero “la lancia magica”.
Perché magica? Perché, a quei tempi, una lancia (perlomeno creduta tale) che
“si allungava a volontà e non mancava mai l’avversario” non poteva che
guadagnarsi tale appellativo, da parte dei “comuni” guerrieri che, pur valorosi
e possenti, erano abituati a brandire lance “comuni”, costituite cioè di
robusto legno e di una punta di temprato metallo. Anche in questo caso, dunque,
siamo in presenza di un’arma non convenzionale: probabilmente si trattava di un
“tubo” (di materiale ignoto) dalla cui estremità scaturiva, ancora una volta, un
raggio laser, in grado di colpire il nemico, anche in movimento, a qualunque
distanza.
Arma talmente pericolosa che, a
riposo, “era necessario mantenerne l’estremità immersa in un paiolo pieno
d’acqua”. Quest’ultimo dettaglio conferma l’esattezza dell’intuizione di non
poter circoscrivere tutte queste narrazioni nell’ambito dell’inflazionata
“mitologia”, poiché anche la tecnologia moderna adotta per certi generatori
Laser un’analoga precauzione, differente solo per il liquido utilizzato. Recita
infatti Raymond Channel nel trattato “Le laser et ses applications”: «…È
sconsigliato, quando non si desideri utilizzare la potenza del fascio, lasciare
permanentemente in funzione l’apparecchiatura laser, perché in tal modo la
temperatura del cristallo s’innalza pericolosamente…». Oggi il raffreddamento
si ottiene con l’aria liquida, che viene conservata in un apposito contenitore
a doppia parete, argentato all’interno, chiamato “vaso di Arsonval”: che fosse
qualcosa di simile, il “paiolo” di celtica memoria?
Concludiamo questo “arsenale” con
quella che, in un passato non troppo lontano, è stata realizzata dalla moderna
tecnologia bellica, la cosiddetta “arma finale” o “arma totale”: quella
nucleare. Dal “Manawyddan” estrapoliamo: «…Quella sera, mentre ci trovavamo a
Gorsedd Arberth, scosse l’aria un gran colpo di tuono, seguito da una nuvola
così spessa che non si poteva vedere oltre. Quando la nube si dissipò e
tutt’intorno si schiarì, gettammo lo sguardo sulla campagna che avevamo
attraversato prima: bestiame, dimore, persone, tutto scomparso. Anche i nostri
compagni erano spariti, senza lasciare traccia…». Che dire? Non sembra di
riascoltare, purtroppo, la descrizione delle distruzioni atomiche di Hiroshima
e Nagasaki? Fu l’identica sorte toccata a Mohenjo-Daro e Harappa,
magistralmente descritta da David Davemport, nel suo ormai introvabile
capolavoro “2000 a.C.: distruzione atomica”?
Ma, alla fine, da dove venivano
questi “Dèi”?
Abbiamo citato all’inizio un
passo di Taliésin, bardo gallese del V° secolo. Bardo (= poeta), sì, ma anche
Drùido (=iniziato, lo afferma lui stesso) e, probabilmente, anche qualcosa di
più: un mutante (*), frutto quindi d’incrocio fra una donna ed un’entità
superiore pseudo-divina, d’origine extra-terrestre. Un po’ quello che si legge
nel capitolo VI della Genesi, quando si parla dell’unione dei Nefilim, “caduti
dal cielo”, con le “figlie degli uomini”. Taliésin, quando parla dei
“colonizzatori”, li chiama «Tuatha di Danann»: “tuatha”, in Gaelico, significa
“tribù” e “Danann” “del dio di Dana”. In Bretone popolare, Dana diventa Dan e,
in Gallese, Don. E qui interviene uno dei più noti studiosi della cultura
celtica, J.Markhale, che, nel suo libro “Les Grands Bardes gallois”, ci svela
l’enigma: «…Llys Don significa “la corte di Don”, che serve a designare la
costellazione di Cassiopea». Ecco individuata, quindi, la provenienza dei
“colonizzatori”: la costellazione (Corte = insieme di stelle) del dio di Dana,
di cui ovviamente, come sottintende la denominazione stessa, Dana è il pianeta
maggiore. Se in una notte limpida contempliamo la volta celeste e puntiamo la
stella polare, un po’ più a destra (si fa per dire…) compare una “macchia
bianca”: è Cassiopea, alias “la Corte di Dana”, come la chiamavano gli antichi
Celti, dal cui pianeta principale (Dana, per l’appunto) i nostri
extra-terrestri partirono in un remoto passato, in direzione nord-Europa.
Taliésin, infatti, prosegue: “…Dana ha riunito i suoi figli e ha detto loro di
scendere sulla Terra, dove regna il disordine…”.
Se era necessario che “i figli di
Dana” scendessero sulla Terra per ristabilire l’ordine, è evidente che questi
abitavano un altro pianeta ed il fatto che si parli di un sito geografico come
di una persona, è consuetudine acquisita da tempo: non si dice, infatti, “La
Terra ha inviato i suoi figli alla conquista dello spazio”, “L’Europa si
scontra con altre civiltà”, ecc.?
E noi, ironicamente, aggiungiamo:
i “figli della Terra”, già a quei tempi, non erano conosciuti all’Estero come
“bravi ragazzi”, se c’era bisogno di “mettere ordine fra loro”… Ma questo, si
sa, è nel DNA dell’Uomo…
Va ricordato, inoltre, che il
termine “Dana” nella tradizione celtico-irlandese significa “la madre degli
Dèi” ed è presente anche nella forma “Ana”. Quest’ultima dizione viene
ricollegata dai proto-linguisti ad “An” o “Anu”, che nella simbologia
sumerico-accadica sta ad indicare “l’alto”, “il cielo” e nell’alfabeto
cuneiforme è scritto con lo stesso ideogramma della parola “dio” (DIN.GIR).
Quindi, letteralmente, “il dio che sta in alto, nel cielo”, la stessa
denominazione che usa il “Pater noster” della religione cristiana. Il che sta a
confermare, se mai ce ne fosse bisogno, che il detto “tutto il mondo è paese” è
vecchio quanto l’Uomo…
Una curiosità: la raffigurazione
della “Madonna Nera” (presente in Itala in 19 santuari, in Francia in un
centinaio ed anche in altri insediamenti celtici del resto d’Europa) va
collocata in stretto rapporto con la tradizione celtica. In quest’ambito,
infatti, riveste un ruolo importante la figura della “Madre-Vergine-Karidwen”,
che si riallaccia all’etimo “Dana” della tradizione irlandese di cui sopra e
che significa letteralmente “porta divina” (da cui la “ianua coeli” delle litanie
cristiane). Karidwen (o Cerridwen) era rappresentata sotto due aspetti: come la
“dea bianca”, corrispondente alla Luna Nuova (= nascita), e come la “dea nera”,
corrispondente alla Luna Vecchia (= morte). Questo perché, come s’è detto, i
Celti suddividevano il tempo secondo i cicli della luna e non del sole.
CONCLUSIONI
La tradizione celtica localizza
il punto d’approdo degli extra-terrestri nel Nord-Nord-Ovest dell’Europa e
riporta le date del loro arrivo, coincidenti quasi sempre, secondo il calendario
celtico, con le ricorrenze di Beldan (1° maggio) e di Saman (1° novembre).
Perché? Non crediamo che a quei tempi esistessero già le agenzie di viaggio,
che offrivano i pacchetti “low cost” fuori stagione… La spiegazione, forse, è
un’altra ed in questo la Geofisica può esserci di supporto. Il nostro pianeta è
circondato da una specie di schermo, chiamato Fascia di Van Allen, che lo
protegge dall’eccessivo bombardamento da parte delle particelle cosmiche, molto
dannose perché ionizzanti, e delle radiazioni ultraviolette, micidiali per i
microrganismi: senza la Fascia di Van Allen, la vita sulla terra non sarebbe
possibile. Potrebbe darsi che questa cintura, in qualche modo, arrecasse
“disturbo” (per le radio-comunicazioni?) alle cosmonavi aliene.
Tuttavia
esistono tre “corridoi”, in corrispondenza dei quali la fascia sembra attenuare
la propria attività: questi si trovano sulla perpendicolare del Polo Sud, al
disopra dell’Africa e, giustappunto, sulla perpendicolare del Polo Nord. Ma
perché proprio il 1° maggio ed il 1° novembre? Potremmo ipotizzare che, per
leggi di natura ancora sconosciute (forse legate all’inclinazione dell’asse
terrestre?), nei due periodi indicati l’attività della suddetta fascia si
riduca ulteriormente, favorendo in tal modo l’ingresso delle navi spaziali
nella nostra atmosfera.
In conclusione, la tradizione
celtica rafforza la convinzione che, similmente all’India, al vicino e lontano
Oriente, al bacino del Mediterraneo e all’America precolombiana, anche
l’estremo nord dell’Europa abbia conosciuto in epoche remote la visita di
entità aliene, a dimostrazione che l’intero nostro pianeta è stato (e continua
ad essere) oggetto d’attenzione, a ripetute ondate, da parte dei “signori del
cielo”. Applicando un’interpretazione della tramandazione gaelico-britannica
scevra da preconcetti e luoghi comuni, abbiamo potuto conoscere i loro mezzi di
locomozione, le loro armi, le loro tecniche medico-chirurgiche e
fito-farmacologiche, convincendoci sempre più che, migliaia d’anni or sono,
essi erano detentori d’una scienza pari (per alcuni aspetti) o addirittura
superiore (per altri) a quella terrestre del XX e, perché no, anche del XXI
secolo.
Tutte e solo fantasie? Può darsi,
ma agli ultra-scettici, ai super-positivisti ed ai maxi-nihilisti che affollano
da sempre l’umano consesso vogliamo ricordare, a conclusione di questa ricerca,
che Karla Turner, nel libro “Rapite dagli UFO”, al paragrafo «Retroterra
personali», evidenzia: “…Tutte le otto donne (protagoniste di IR 4; N.d.R.)
hanno dimostrato di possedere facoltà parapsicologiche superiori alla media. I
dati sull’origine etnica tendono a dimostrare che la discendenza celtica e dai
nativi americani, rispetto ad altri specifici gruppi etnici, è prevalente nei
resoconti di IR 4 avvenuti in America…”.
Il che starebbe a dimostrare che
quei “signori del cielo”, oltre che in tecnologia, erano superiori anche sotto
l’aspetto delle promesse: avevano preannunciato “un giorno ritorneremo” e
sembra proprio che, quella promessa, la vogliano mantenere…
*nota: Mutanti = esseri fisicamente superiori alla media umana, detentori di segreti e di poteri sconosciuti ai terrestri, che aggiungono queste qualità materiali alle doti spirituali proprie dell’Uomo.
BIBLIOGRAFIA
Coarer / Kalondan / Gwezenn /
Dana – I CELTI E GLI E.T. – Faenza, 1976
Arbois de Jubainville – DRUIDES et DIEUX en
forme d’animaux
Sjoestedt M.L. – DIEUX et HEROS des CELTES
Loth J. – MANAWYDDAN, fils de Llyr. Les
Mabinogion
Markale J. – LES GRANDS BARDES GALLOIS
Bergier J. – LES E.T. dans
l’histoire – Ed. J’ai Lu, 1970
Channel R. – LE LASER et SES APPLICATIONS
médicales et biologiques – Paris, 1965
Carnac C. – ASTROLOGIE CELTIQUE –
Sand, 1986
Blumrich J.F. – …E IL CIELO SI
APRI’ – MEB, 1976
Notiziario UFO - n.° 109 - 1988
Davemport D.W. – 2000 a.C.:
distruzione atomica – Sugarco, 1979
Sitchin Z. – IL XII PIANETA –
Mediterranee, 1983
Sitchin Z. – GUERRE ATOMICHE al
tempo degli dèi – Piemme, 1999
Turner K. – RAPITE dagli UFO –
Mediterranee, 1996
Casale M. – PATRANICO – Genova,
2007
Filip J. – I CELTI IN EUROPA –
Newton & Compton, 1987
Green M.J. – DIZIONARIO DI
MITOLOGIA CELTICA – Rusconi
Herm G. – IL MISTERO DEI CELTI –
Garzanti, 1975
Hope m. – I CELTI – Armenia, 1999
Markale J. – I CELTI – Rusconi,
1982
Powell T.G.E. – I CELTI – Il
Saggiatore/Est, 1999
Riemschneider M. – LA RELIGIONE
DEI CELTI – Rusconi, 1997
Sharkey J. – MISTERI CELTICI –
Fabbri, 1982
Berresford E.P. – IL SEGRETO DEI
DRUIDI – Piemme, 1997
Callegari G.V. – DRUIDISMO &
GALLIA – Clypeus, 1983
Markale J. – IL MISTERO DEI
DRUIDI – Sperling & Kupfer, 2002
Piggot S. – IL MISTERO DEI DRUIDI
– Newton & Compton, 1982
Cerinotti A. – CATTEDRALI del
MISTERO – Giunti, 2005